giovedì 23 ottobre 2008

L'ultima volta

Ci sono periodi in cui fai canestro da ogni parte del campo e non è il caso di sedersi in panchina. Altri in cui centrare una vasca da bagno è come disegnare quadri senza l’uso delle braccia. Il problema, spesso, è far coincidere questi due momenti con le partite che si giocano. Dipingere coi moncherini ad una finale NBA era da tribuna, nemmeno da panchina. Magari la sera prima, al campo scuola, segni ad occhi chiusi da sopra lo sportello della macchina nel parcheggio, tra gli sguardi attoniti dei ragazzi in calzoncini. Ma non ha lo stesso peso.
L’estate dei miei 35 anni ero in tribuna a guardare il mio matrimonio. Fuori forma e depresso perché alle finali – Caterina era sempre stata la partita più importante da giocare – non riuscivo nemmeno a palleggiare a dovere. Il time out per me durò tutto il mese di agosto in cui rimasi solo nella nostra città. E la conobbi.
Aveva 25 anni, un fragile vestito rosso ed i seni che minacciavano di uscire fuori dall’orlo, la prima volta che la vidi. Segnai il primo canestro raccogliendo un pallone che non sapevo di avere, da metà campo. Così, senza neanche aver smesso la tuta. Raccolse il mio sorriso timido e fugace e sentii il rumore della retina quando la palla entra pulita, senza incertezze.
Il corso che frequentammo i primi tre giorni di agosto lo guardai da lontano come una linea all’orizzonte confusa tra le teste di quelli davanti. Di quelle ore mi ricordo il profumo che portava e i capelli rossi vicino, durante le lezioni. Il resto fu un tiro in sospensione, ispirato. Perché fai canestro da ogni parte del campo in questo spazio in periferia.
Una settimana dopo non finimmo la cena in casa. La spogliai in terrazzo, tra gli occhi indiscreti d’agosto. Quelli che non si rassegnano al coma cittadino e sperano in nuove forme viventi, magari fuori dalla finestra alle dieci di sera. Rantolammo esausti per terra per due settimane. Nel canestro della mia spazzatura contai più preservativi che bottiglie di birra. Una rarità persino dieci anni prima.
Sentirla addosso era dondolarsi su un’amaca a due passi dall’oceano, immaginare il futuro e poi cancellarlo. Ci perdemmo in una sera fresca d’alta marea: mi guardò negli occhi e suonò la sirena sull’ultimo tiro dicendo “Questa è l’ultima volta”.
Tornai alla mia vita non sapendo cosa ci fosse al di qua delle siepi che avevo trascurato di potare per un mese intero. Ripresi il controllo di quello che avevo e lo mantenni anche quando ebbi molto di più. Per tutto questo tempo.
«Perché me lo racconti?» mi domandi. «Non sei in fin di vita, sembra una confessione da ultima ora».
Perché ho sempre amato tua nonna. E la sogno anche ora che non c’è più. Ho dentro l’ombra di quel mese delirante di giovinezza, mischiato con la vita che è il resto. Ho smesso di giocare tempo fa, è vero, ma so che potrei metterla dentro anche ora. Basta solo staccare la flebo, ad esempio. Andare in giro per l’ospedale quando l’attesa si dilata e rischi che la marea ti trasformi in un’isola. In un mese di degenza vedi passare tutto su barelle o sedie a rotelle, bloccato. Magari in dissolvenza. Lei si è spenta stanotte.
«Lei… ?» mi chiedi.
Lei che non vedevo dal mese in cui ci salutammo. Che aveva i capelli rossi sul cuscino bianco, ora come allora. Lei, assopita senza coscienza dopo secoli. Ha aperto gli occhi, sorriso e l’ha detto, stringendomi un polso. Come se la marea non fosse mai salita quella sera d’agosto di mille anni fa.
Ho smesso di giocare ora, senza sapere che ero ancora in campo. Si è sbagliata trent’anni fa, ma non stanotte. Questa è l’ultima volta.
Portami a casa, piccola mia.

lunedì 13 ottobre 2008

Terminal

Riattacco galleggiando in un silenzio angosciato.
«Dove sei?» aveva chiesto. «Fiumicino» avevo risposto. «A che ora il volo?» aveva continuato. «Tra due or…» «Arrivo! Aspettami!» senza neanche il tempo di farmi finire il tuffo nell’ansia. Ondeggio, in attesa. Un cane nel terminal spazza il pavimento con la coda.
Chicca mi ha trovato poco fa con la voce rotta, dopo tre mesi che non la vedo. Sempre in giro io, sempre ferma lei. Mi siedo e mi perdo in quota al di qua del vetro. Tra aerei che salgono e che scendono, misteriosi nelle loro acrobazie da giganti. Il cane ora guaisce più in là. Ne approfitto per pisciare. Ma non riesco a concentrarmi del tutto.
Raggiungo il Mc e aspetto, seduto con la birra incartonata. Davanti a me passa una bella rossa. Il seno lentigginoso è a rischio di scivolare fuori dall’orlo del fragile vestito rosa.
Aspetto mia sorella senza sapere perché o cosa mi porterà. L’attendo in questa nave senza movimento che è il terminal B di Fiumicino. Tra chi va e chi viene. All’apparenza sapendo anche dove e con orari precisi.

Arriva. Scarpe da ginnastica slacciate, maglietta di fuori. Ma non ero io il fratello zingaro? Mi stringe forte.
Dice: «Auguri» all’orecchio.
Dico: «Ah!»
Dice: «Che c’è, non ti ricordavi del nostro anniversario?»
«Sì, certo», mento sibilando.
Più selvaggia e ferita, con gli occhi che aveva mamma, mi fissa ed io finisco di galleggiare. Ora nuoto verso il bordo della piscina e lei mi porge l’asciugamano. Ha una cicatrice sul collo, ma dietro. Non la vedo da troppo.
«Che ti è success…?» le faccio e lei mi mette un dito sulle labbra.
«Ssst… sto bene, non credere» mi fa. «Sono venuta a farti gli auguri e a festeggiare prima che tu parta. Dove stai andando stavolta?»
«Trondheim» ripeto. Mi sorride inclinando la testa di lato.
«Freddo mi sa» dice con uno sguardo tra la disperazione e l’affetto.
Senza accorgermene mi gratto il collo nello stesso punto del suo dolore già superato. Avrei voluto portarla con me, toglierla da quella vita nella quale si perdeva.
«Già…» rispondo dedicandole un occhiolino.

Festeggiamo insieme il giorno in cui abbiamo ucciso nostro padre, ridendo per lo più. Abbracciati a bordo della nostra piscina di un tempo. Giusto un tramonto, qui, come da piccoli. Piedi nudi contro il sole e crema sulle braccia arrossate. In attesa che lui rientri in casa, 16 anni fa.
Mamma è come se fosse sempre qui, a guardarci, ora come allora. Anche dopo il suicidio e l’ennesima rivelazione di adulterio di mio padre. Ricordarla ogni giorno fa male. Soprattutto con l’immagine dei paramedici che la staccano dal soffitto della stanza illuminata. Un’ombra che si staglia contro la luce del soggiorno. E la finta disperazione dell’animale che era rimasto a custodirci.
Tre mesi dopo l’incidente lui ritorna a casa parcheggiando nel vialetto, coi fanali contro l’ingresso del box. Scende, con la patta aperta e la camicia di fuori. Lo vedo prima io di Chicca, dal bordo della piscina. Mi chiama per aiutarlo a sistemare la macchina dentro. Ho 15 anni, una sorella più piccola di sei, un padre che dice di amarmi ed una madre morta dentro un cappio mentre eravamo a scuola. Una vita a caro prezzo, già allora.
Una vita in cui so già guidare. Mi alzo coi piedi gocciolanti e lo raggiungo allo sportello. Era già tutto dentro di me, da tempo. Lui fa il giro del cofano, apre la saracinesca. Accendo il motore ed innesto la prima. Il sobbalzo lo incastra nella lamiera piegato ed urlante. La sagoma abbozzata sulla lastra metallica si macchia di rosso.
Quando socchiudo lo sportello per scendere, Chicca è lì a fissare il cofano. Le giro la testa e la riporto coi piedi a mollo. La nostra infanzia finisce con l’arrivo della polizia che archivia nel rapporto la parola “incidente” e ci riconsegna una vita. Festeggiamo quel giorno a modo nostro, ogni anno sempre insieme.
Chicca mi parla di Michele ora, la sua ultima delusione. Più bella di sempre, è cresciuta da quel giorno. L’unica cosa che so mentre ascolto di un altro uomo sbagliato che la picchiava.
Prende coraggio: «Sono incinta. Mamma sarebbe una nonna fantastica». Io le guardo la maglietta larga, eppure tesa sulla pancia. «Lo tengo sai, anche se ci siamo lasciati. Lui non lo voleva. O non era sicuro, forse. Io non ho avuto un attimo di incertezza. L’ho aiutato, dicendogli che non era suo». Sorride mentre con l’indice e il medio si sfiora la cicatrice: a dirmi che anche sola ce l’avrebbe fatta. Come sempre.

Manca mezz’ora al mio imbarco. Sono seduto a guardare gli aerei in quota al di là del vetro, nella notte. Coi piedi a mollo come tanto tempo fa. Dal bordo della piscina osservo un bambino che ride tra le braccia di una donna. I capelli bagnati, gli schizzi intorno e l’odore di casa.
Al check-in, col biglietto in mano, non fanno storie per l’ultimo viaggio della mia vita da nomade.