lunedì 17 novembre 2008

Senza fiato

C’è il cielo stracciato di settembre sulla costa ovest del mondo. Corre con la sabbia nelle scarpe fuggendo dai cani al galoppo, tra bambini e aquiloni.
Lei l’aspetta in veranda, sdraiata sul lettino. La mano ferma sul ventre, gli occhi rossi nelle scorie del tramonto. Il sorriso è di chi sa che ogni cosa è stata possibile. E tutto ciò che non è stato è solo perché non ne valeva la pena. Né qui, né in qualunque parte della loro vita. L’idea di perdersi, un punto d’arrivo, non una sconfitta.
Ha la maglia zuppa di sudore e il respiro scarico d’aria, dopo mezz’ora di jogging sul filo dell’oceano. Lei s’alza a fatica negli ultimi tempi, ma lo fa comunque per accoglierlo e intrecciarlo in un abbraccio.
La vita li fissa senza fiato. Entrambi, seppure per motivi diversi.
«Mi sei mancata», baciandola. «Come ti senti?»
«Ora che c’è il tuo odore, bene», ma il viso non si sforza di mentire come all’inizio di tutto.
Lui le passa una mano sulle spalle, un’altra dietro le ginocchia. La solleva piano per non spezzarla. «Vieni, ti lavo i capelli oggi». Lei ha il sorriso dell’abbandono, di chi ha sognato nella notte, ha perso il ricordo e lo ricerca nei profumi intorno. Non oppone resistenza al vento che le scompiglia la faccia e al tramonto che le strizza gli occhi. Ha il sapore degli ultimi giorni in bocca, l’odore della loro casa chiusa da mesi, lontano. Lui le appoggia il naso sulla fronte e le tende le labbra, lasciandole lì. La lacrima che perde scivola rapida sulla testa spoglia di lei.

venerdì 7 novembre 2008

Tequila


Al Bar (LAB - Giulio Perrone Editore, novembre 2009)
Pag. 29 e segg. "Tequila" di Riccardo Sorrentino


Quando ci han fatto scendere, non avrei pensato di camminare a lungo. Ci siam bloccati nel nulla, come capita quando corri verso qualcosa da raggiungere comunque. Qualcuno sostiene che non è importante la meta, senza un viaggio. Il mio è tra le rotaie, ora. Coi fari della motrice che illuminano i pali della rete elettrica. E la pioggia fitta che s’infila per arrugginirmi. Tutti a trascinare i nostri piccoli vagoni a forma di trolley. In fila indiana tra pietre nere e il vociare indignato: alla ricerca della stazione non raggiunta per il guasto. Di lato il buio acceso di sterpaglie di un punto senza segnale gps e ignoto agli operatori di cellulari. Intorno, un brusìo che non è vibrazione, sotto il clac-clac dei trolley. Ci prenderanno al prossimo avamposto ferroviario han detto, ma nel frattempo non resta che avanzare. E il vento che sale pare saperlo.
Dopo mezz’ora come capofila di un gruppo che brancola nel buio, gli occhi scorgono le lanterne di un saloon ai piedi delle rotaie. La pioggia, se forse ha smesso, è perché non ha più alcun vestito da chiedermi ancora. Il vociare dei viandanti aumenta alla vista delle luci, ma presto capisco che della stazione ha solo la fila di neon all’ingresso.
Qualcuno uscendo dalla locanda, ci informa che poco più avanti c’è quello che cerchiamo. Anche se per me è in ritardo da un pezzo quel treno.
Rimango a guardare il gruppo che riparte, le schiene curve sotto l’acqua e i fiati che fumano.
Entro.
Gocciante mi siedo al bancone, tra gli occhi sfuggenti della nera che sembra avere tutto sotto controllo.
«Tequila?». Senza buongiorno o buonasera.
«Una chiara, grazie» rispondo.
«Stai bagnando il bancone» e con la lingua si umetta le labbra senza guardare.
«Scusami». Ha gli occhi verdi, una t-shirt nera e odora di lavanda.
Intorno è fumo di sigarette nella tv che trasmette i risultati delle elezioni americane. Siamo in quattro e un juke box sul fondo.
«Funziona?» le domando.
Allunga la mano su un bicchiere e senza girarsi mi dice: «Se ti piace la musica country, ha solo una canzone».
Mi alzo e con la birra raggiungo il dj di legno. ‘Wasted days and wasted nights’, adatta alle due di notte di un giorno tra le rotaie. Freddy Fender non mi contraddice. Le immagini mute in tv si colorano di quadrati rossi e blu di stati democratici e repubblicani. La mia birra scende sotto il livello di guardia.
Non la sento arrivare. Domanda: «Tequila?»
Non mi sono mai fatto di tequila. Non mi sono mai fatto una nera, a dire il vero. Sono stato vicino a farmi una macchina per viaggiare, anni fa. Mi sono fatto fregare più di una volta, sì. Non so se i conti siano pari o ancora da sistemare. Li leggo nel giallo color urina, annotati nel sottobicchiere della birra. Ma non ho il mio commercialista vicino.
«Tequila» dico e lei arma la pistola sul fianco e spara il colpo impassibile. Mando giù aspettando che arrivi il treno, ma è già passato in gola e approdato nello stomaco, senza intoppi stavolta.
Lei si ferma e mi fissa. La vedo di lato e mi stropiccio gli occhi. E’ bellissima.
«Tequila?» domanda ancora. Tenendolo in mano le allungo il bicchiere e lei versa. Freddy canta sempre più lontano lo spreco di giorni e di notti.
Quando sbatto il bicchiere sul legno del bancone lei riempie sapendo che quello è il segnale. La sirena di chi vuole tutto e non vuole niente. Ogni sera si appoggia al bancone e versa fino all’orlo del bicchiere di chi va a pesca nell’oceano. E prende soltanto sonno.
No so bene cosa succede o dove mi troveranno. Qualcuno ha detto che sono a cinque minuti dalla stazione, prima. Io dico che fuori cadono pezzi di cielo, ero su un treno guasto e non sto da nessuna parte. Corro. Corro sulla mia personalissima ‘Highway Tequila’.