sabato 6 febbraio 2010

Di noi due

Quando Simone Braganti morì, Manuela era a cambiare il tagliando del parcheggio sul cruscotto della macchina. Inserì le monete una per volta mentre il sole pallido creava ammiccamenti sul display del dispositivo. Simone non si mosse dal fianco destro dove lei l’aveva lasciato solo pochi minuti prima. La cercò con lo sguardo, provò a chiamarla col fiato lungo, presagendo. Pensò al sogno che aveva appena fatto che odorava di vita passata, ora vita presente: lei gli aveva chiesto di andare a vivere insieme.
Manuela avrebbe ricordato in seguito che aveva aperto lo sportello dell’auto col tagliando in mano, tra le sirene di un’ambulanza diretta al pronto soccorso dall’altro lato della strada. Aveva pagato fino all’indomani mattina, ora in cui si sarebbe mossa per andare a lavoro, non sapendo invece che non sarebbe rientrata prima di una settimana. Faceva freddo con il sole chiuso in una bottiglia ghiacciata. Avrebbe pensato che la debolezza di quella telefonata le era costata l’ultimo respiro del marito che aveva vegliato negli ultimi mesi senza perdersi mai sotto quella pioggia che precipitava nella vita sua e di sua figlia. Manuela avrebbe aperto il display e chiamato: lui sarebbe stato dall’altra parte due squilli dopo.
«Ciao. Come va?», avrebbe sentito.
«E’ dura», dall’alto una lacrima precipitava.
«Lo so. Vorrei cercare di renderla meno dura. A te e alla bambina, ma non so come fare. Se solo lo sapessi…»
«Non manca molto. E’ questione di poco, credo. Non ha più forze, lo vedo. E’ uno strazio per tutti», tra i singhiozzi.
«Manu, passo a pranzo, ti porto un pezzo di pizza e…»
«No, grazie. Davvero. Preferisco di no. Mangio un boccone al distributore. Vicino alla stanza ce n’è uno. Davvero, voglio stare sola con lui. Già stanotte mi sei stato vicino, va bene così». Lo avrebbe detto veloce. Con una mano a screpolarsi la fronte, mangiandosi un labbro secco di pianto. Quella notte avevano dormito come nella sala d’aspetto di una stazione o come in un’automobile in panne sul ciglio della strada. Avevano dormito abbracciati e, per la prima volta, non avevano fatto l’amore.
Avrebbe chiuso la comunicazione e lo sportello, lasciato dietro il suono di un'altra ambulanza e si sarebbe fatta inghiottire dall’ascensore, mentre la città precipitava sotto di lei. In corridoio avrebbe assaporato il calore e l’odore del linoleum per l’ultima volta.
Simone non si mosse più dal fianco nemmeno quando lei gli appoggiò una mano sulla nuca. Da poco meno di due minuti era terminato il suo ultimo pensiero lucido prima del breve coma. Lei che trascinava su per la rampa di scala una valigia troppo pesante. Una di quelle di lui, che si era rovesciata con un angolo su un piede mentre provava a darle una mano. Lei che parlava, rideva, tutto sembrava nuovo, appena scartato mentre gli apriva la porta di casa. Quella che sarebbe diventata la loro per quindici anni.
«Ma è qui che vivremo?» mentre l’abbracciava all’entrata.
«Beh, fino a quando non ci saremo stancati, ovviamente» gli disse ad un palmo della bocca.
«Della casa o di noi due?»
«Della casa, bel ragazzo. Della casa»
Tra tutti i momenti di una vita, la pallina dell’ultimo giro di pensieri rotolò su quell’istante tra gli ultimi rantoli che nessuno ebbe modo di udire. Non sua moglie certamente, che rientrando avrebbe domandato a quel ragazzone che sembrava ormai più suo figlio che suo marito: «Hai sete?». Ma lui sarebbe stato altrove anche quando lei avesse preso un cucchiaio sul comodino per metterlo sotto le narici o tastargli il polso tra le lacrime. Sopraffatta dalla stanchezza e dalla serenità fatta ora di rumori lontani, con i timpani chiusi per lo shock. Sepolta dall’amore che aveva avuto per l’uomo svanito tra le pieghe di quel letto bianco come i neon dell’ospedale.
Avrebbe dovuto chiamare qualcuno degli infermieri, ma c’era tempo. Ci sarebbe stato tempo per tante cose d’ora in poi là fuori. Intrecciò le dita con le sue. Sentì che la febbre lo stava abbandonando, la temperatura tornava ad essere normale rispetto agli ultimi giorni. Pensò che ora sapeva anche lui. Di loro due e degli ultimi anni di bugie, dell’altro, sapeva tutto da dove era adesso. Avrebbe voluto sussurrargli qualcosa, ma lo pensò e basta. Si alzò e chiuse la porta della stanza. Tra i singhiozzi compose il numero appoggiando le spalle e la testa, piegando le gambe.
«Tesoro, ciao… Mamma torna a casa…»