giovedì 29 dicembre 2011

Labirinti

Ha iniziato per caso. Su di un foglio di carta, tra i banchi di scuola, ha tratteggiato in blu il primo groviglio della sua vita. Senza bisogno del filo si è ritrovato qualche mese più tardi in una piccola scatola di cartone. Lì ha alzato pareti con listelli di legno ed una colla scaduta. Alla fine dell’intrico si è scoperto nella sua casa al mare, anni dopo. A sistemare pareti di carton gesso per far giocare la sua bambina in giardino.

Costruisce labirinti di professione. Per divertire i ricchi che ne vogliono uno nelle loro ville. Per i set cinematografici in allestimento e per i luna park. Ha fatto la sua fortuna sulla voglia di perdersi di ognuno. Senza impronte o cartine tra le mani. Si entra e si esce. Spesso da dove si arriva solo per la paura di andare.

Da cinque giorni è tra i percorsi che ha progettato per oltre un anno. In silenzio, nella sua opera definitiva. All’interno dell’hangar affittato per i suoi lavori, ha fatto sistemare il suo ultimo labirinto. Quello della fama sconsiderata.

Oltre cento camion hanno sparso sabbia per due mesi sul fondo del capannone. Decine di tecnici hanno montato le migliaia di pareti del progetto. Ha chiuso tutti fuori, acceso le luci dello stabilimento ed è entrato. Unico aiuto la sabbia sotto i suoi piedi, segnata con le impronte che avanzano ad ogni passo. Faticose e circospette, per tornare indietro ed arrendersi, se ce ne fosse bisogno.

Cammina ora come un futuro che non si è mai avverato. Impiegando più tempo di quello che aveva immaginato dentro il labirinto. Quello in cui ha riversato tutte le paure e i fallimenti, cercando di snidarli e risolverli. Per una volta nella vita pensando a definire le sue scelte e non viceversa. Sapendo che tra poco, oltre l’impronta che non c’è, fuori dal groviglio, apparirà il senso di quello che si è fatto. Il senso che gli diamo.

mercoledì 31 agosto 2011

C (parte terza)

IV
La sensazione iniziale è chiara e definitiva come il primo sole della giornata che lo illumina: smarrimento. Appena apre gli occhi sa che il tempo è passato (quanto?) e il mondo ha continuato per la sua strada. La seconda percezione è quella di punture di spillo in faccia, nitide come i denti di un topo che rosicchia i muscoli del viso. Ma sono mosche. A decine gli ronzano intorno. Ha un braccio addormentato che prova a muovere, lì lontano dove si trova. Gira gli occhi di lato, vede nero e chiude le palpebre. Sente l’odore del sangue rappreso intorno, pare ovunque sulla sua pelle. Torna a fissare in alto, la luce gli provoca bruciore. E’ stordito sotto quel sole senza ora. Muove il braccio buono e si chiude la mano sugli occhi. Le gambe e i piedi paiono reagire ai primi impulsi. Cerca di recuperare la cognizione del tempo trascorso. Intuisce da lontano l’urgenza di qualcosa che doveva compiere e che non ha fatto, per qualche motivo.
Si mette sui gomiti, il sole è accecante, il caldo asfissiante, da ammazzare i cani. Le narici rubano un po’ d’aria mentre si gratta la gola per capire se ha ancora l’uso della parola. I suoi occhi si perdono nel buio, di nuovo. E allora comprende che c’è qualcosa che non torna.
Un grande occhio di luce lo investe fino alle caviglie, mentre tutto intorno si confonde di nero. E’ sotto un riflettore accecante, senza vedere oltre. Intuisce che è al chiuso anche se non ne è sicuro. Si passa una mano sotto al naso, a pulirsi il sangue rappreso, a scacciare le mosche. Sente l’odore delle dita insieme alle croste che si sfaldano. Rabbrividisce perché prima ancora che l’onda di pensieri lo raggiunga e lo investa, lui è già precipitato dal surf con la faccia impigliata nell’acqua gelata. L’odore di morte è ovunque, dolciastro ed invadente. Ora che è lucido lo distingue da tutti gli altri olezzi, compreso quello del sangue cicatrizzato che ha proprio dentro il naso. Le pupille si muovono dalla luce al buio, e viceversa, senza abituarsi mai. Nonostante quello che pensa, s’impone di essere razionale: gli sfugge un passaggio, senza dubbio.
Guarda avanti senza muovere gli occhi in alto, schermandosi con la mano. Deve individuare per bene quello che già sa che vedrà, ma deve imporsi di essere incontrovertibile. Dopo qualche secondo inizia a distinguere la parete in fondo e i sacchi, accatastati come onde nere che fanno sberleffi, spruzzi disarticolati. Decine di sacchi che lui stesso ha riempito e gettato lì, nel vagone cisterna abbandonato vicino al bar del Brighenzio. Al centro di quel mare di morte scura c’è lui, vestito come qualche ora prima (quanto tempo è passato?), mentre inseguiva una bambina di dodici anni tra le rotaie.
Gli fanno male le anche e capisce che chi l’ha gettato laggiù si è solo dimenticato di imbustarlo, ma che anche il suo carnefice non ha avuto pietà nel tirarlo di sotto dall’apertura che scorge in alto, aperta sulla luce. Il vomito gli risale la trachea e lo colpisce come la mano di una puttana che gli strizza le palle. Ce n’era una in quei sacchi che mentre scopava gli carezzava i genitali strizzandoglieli, facendolo godere di quel solletico intimo che nemmeno lui riusciva a procurarsi da solo. Rovescia l’acido dello stomaco su uno dei sacchi neri di fianco. Potrebbero essere le cosce di una delle sue amanti quelle su cui ha vomitato. Inizia a tastare, arrivando a sentirne i piedi. Un alluce ha rotto il sacco e fuoriesce il dito con il cartellino attaccato: ‘XCIX’, la novantanovesima preda. L’ultima che non era riuscita a celare prima dell’arrivo della bambina (come si chiamava?). Ora finalmente era affogata in quel mare di morte. Insieme a lui.

V
La luce inizia ad affievolirsi. A nulla sono servite le grida e le mani spellate. Le pareti della cisterna sono troppo scivolose per essere affrontate con le unghie e i denti. Quando persino l’odore non gli dà più fastidio, decide di riposarsi. Si accascia a fissare il nero, nel punto più distante dal fascio ora incerto di luce al centro. Ha provato ad accatastare i cadaveri formando una piramide sghemba su cui salire fino all’apertura. Ha vomitato e sputato tutto quello che aveva, compresi i vermi e le mosche. La sete lo ha colto ore fa screpolandogli le labbra, ardendogli la gola. Si è reso conto che non c’è scampo per un uomo di poco conto come lui. Non ce ne sarebbe per nessuno in quelle condizioni. Non lo preoccupa più il fatto che possano scoprirlo lì dentro con novantanove cadaveri imbustati. Ha smesso di chiedersi chi possa averlo gettato lì. Ha abbandonato il pensiero della bambina che gioca a nascondersi nel cuore della notte, ultima immagine di un mondo che non gli appartiene più, tanto è lontano. Sembrano passate settimane, ma sa che neanche un giorno è ancora trascorso. E nessuno lo troverà. Come non han trovato decine di cadaveri in putrefazione da mesi. I pensieri si sfaldano nella dissolvenza della notte che incombe. Aspetta la fine grondante dei colori del tramonto sapendo che non vedrà nulla di diverso dalle decine di mosche e di vermi che ormai gli offuscano la vista e gli assordano le orecchie. Pensa ancora che il bene non esista mentre il male sì. E’ uno dei mantra che ha proclamato negli anni, ora lo vive sulla sua pelle, dopo averlo professato a decine di donne che sono insieme a lui. Fine beffarda la sua: seppellito vivo con le sue creature. Tutti esseri che gli hanno consegnato una minima parte di loro, seppure fisica, ma che si sono affidate per qualche ora. Non è così lucido per commemorarle, ma le ringrazia, mentre rauco ansima respirando mosche e vomito, ormai disidratato.
Le risate che sente sono così remote che pensa lucidamente che il suo cervello si stia prendendo beffe di lui. ‘E’ così che va alla fine: ti prendi per il culo da solo quando non hai più niente da chiedere’, pensa. Un’ombra si allunga sui sacchi, dall’alto, e la risata si fa più distinta, reale. Alza gli occhi e tra nugoli di mosche pensa che non c’è niente da ridere se qualcuno mai stesse ridendo. Ma poi vede che c’è davvero qualcuno in cima al serbatoio e che non si tratta di un gioco di luci beffardo. Allora si muove carponi, ma veloce, affondando le mani e le ginocchia tra i sacchi. Incespicando goffo arriva sotto l’occhio di bue adorante. Sente la risata farsi alta, cadergli sopra con l’eco a rimbombargli nella pancia. Gli sembra la stessa della ragazzina, ma sa che è impossibile che lei sia lassù, che lei l’abbia gettato là dentro. La mano che spunta dall’alto lo rassicura che non sono deliri quelli che sta vivendo, almeno non gli ultimi. Allora prova a singhiozzare qualcosa, come nei film dei sopravvissuti che alla fine vengono tratti in salvo. Disturbati, forse, malati anche, ma salvi dalla prigionia. Non si accorge subito che dalla gola non esce nulla oltre alle mosche, non comprende che non sono lì per salvarlo, ma solo per salutarlo. Nemmeno quando la mano dall’alto lo saluta pensa che possa essere finita, ma che ha avuto anche fortuna che lo trovassero in così poco tempo. Quando vede precipitare un foglio bianco sente di nuovo la risata stordente che consapevole rimbalza nella pancia della cisterna. Ma si fa sotto, con le braccia tese per raccogliere quel paracadute bianco che sta precipitando verso di lui e che conterrà le istruzioni per imbragarlo e trarlo fuori. Le dita lo agguantano prima che si perda in quel mare nero di morte e lo infilano sotto gli occhi avidi. La luce tiepida del tramonto lo illumina quel tanto che basta per lasciargli leggere quello che poi non è molto, ma è tanto comunque. Si abbandona in ginocchio con le braccia lungo i fianchi lasciando cadere il foglio davanti al viso di una delle donne immobili ai suoi piedi. Giusto il tempo di far leggere anche a lei la ‘C’ scritta in stampatello, prima che la botola venga chiusa, la luce si spenga e lui vinca la scommessa con se stesso.
(fine)
(leggi la prima parte)
(leggi la seconda parte)

martedì 30 agosto 2011

C (parte seconda)



III
Ha sempre pensato che a Porto Ceresio o diventi un ciclista professionista o un killer seriale. L’ha provata la bicicletta, ne ha una in giardino che non usa da domenica scorsa. Forse nel week end lo chiameranno per tornare a Lugano, andata - ritorno lungolago. Alla fine ha compreso che non c’è molto di più da fare ed ha optato anche per il secondo hobby. Di donne qualunque, da stropicciare e sistemare in una vasca a fine serata, ce ne sono a decine. Se non è a Porto Ceresio, basta arrivare a Varese, Induno, Brusimpiano, senza parlare di travalicare il confine. Ci sono più ragazze che chilometri da percorrere in sella. Per un uomo di poco conto è quasi troppo.
La stazione ferroviaria gli appare dietro la curva. Si accosta al bar e controlla che tutte le luci siano spente. Il Brighenzio in settimana chiude poco dopo la mezza. Non c’è pericolo sia ancora in giro. Parcheggia l’auto a ridosso della staccionata e ai vecchi serbatoi gpl. Nessuno li usa più, troppo pericolosi. C’è il rischio di saltare in aria per un’inezia.

Tra i vagoni dismessi dalle ferrovie c’è quello cisterna, fermo da dieci anni o forse più. Assomiglia ad un sommergibile con le ruote, scolorito ed arrugginito.
L’imbocco in alto è grande da farci passare una persona e la botola è messa male come tutto il resto, ma perfettamente oliata e funzionante. Sale la scaletta in acciaio sul lato ed apre il portellone. Il fetore che lo agguanta gli fa chiudere gli occhi e strizzare il naso. Rischia di perdere l’equilibrio. Si è dimenticato di mettersi la pasta di canfora.
In macchina se la spalma abbondante sotto le narici ed apre il portellone del bagagliaio. Raccoglie l’ingombrante sacco e lo trascina con una coperta fino alla scala. Intorno, il silenzio più assoluto gli fa girare gli occhi guardingo e tirare su i calzoni. Si concentra e si carica il fagotto nero su una spalla. Con l’altra mano agguanta la scala e si issa sul sommergibile.
In alto è sudato da far schifo, ma non sente più l’odore di morte provenire dal serbatoio.
«Che fai?»
Lui è in piedi sulla scala, oltre il vagone cisterna vede le luci delle barche, respira il sapore della crema. La fitta che sente all’altezza dell’osso cervicale lo stringe in una morsa che non sa gestire. Il sudore non è più quello caldo dello sforzo. Non sa se muoversi per considerare quel sibilo interrogativo.
«Che fai?», come se la voce stessa avesse capito di non avere credito nella notte. Almeno  non in questo momento.
Lui abbassa il viso verso il suono che proviene da lontano, pare dalla Svizzera, preceduto dallo choc che gli ha stordito il cervello. La mano perde presa sul sacco. Il corpo ingabbiato fa un altro schiocco quando lui lo acchiappa all’ultimo, prima che cada di sotto.
La ragazzina è immobile e guarda in alto questo comandante che scende dal suo sommergibile salito a quota periscopica con un sacco sulla spalla come Babbo Natale. Le mani dietro la schiena, un vestito rosso estivo e gli occhi grandi, di quelli che non perdono nulla.
«Che fai lassù?» ripete sorridendo.
Lui volge lo sguardo da destra a sinistra, fissa la strada oltre la staccionata, muove un passo sul piolo più basso: non può stare esposto così a lungo. Scende, dandole le spalle. Quando è al suolo appoggia il sacco.
«Cosa c’è lì dentro?» fa lei, seguendolo con lo sguardo.
Lui ragiona sugli undici, forse dodici anni, della bambina. Pensa che saranno le quattro del mattino. Considera che sono nel luogo più isolato della zona, a ridosso della strada certo, ma su binari morti da oltre venti anni. E tutto ciò lei lo fa sembrare come una qualsiasi conversazione da mezzogiorno in paese, quella con un chiunque che ti conosce da un po’ e vuole sapere di te, come vivi, che hobby hai.
«Ma tu cosa ci fai qui?» le domanda incerto che sia vera la bambina che lo guarda con gli occhi neri.
«Passeggio. Fa caldo per dormire» gli risponde e guarda il sacco storto in terra. Lo indica col braccio alzato: «Lì cosa tieni? E cosa facevi in alto?»
Lui è a disagio. Si terge la fronte con l’avambraccio che puzza di juta. La bambina sembra a proprio agio e curiosa di quello che c’è nel sacco di Babbo Natale.
«Sei sola qui? Dov’è tua madre?» ribatte lui.
Lei lo fissa sorniona, allarga le labbra furbetta. «Io vengo da sola qua. Abito lì », indica con il mento la casa cantoniera in fondo ai binari «Gioco coi treni. Mamma dorme».
E’ la figlia di Sergio e Marianna. Lui non c’è quasi mai, giocatore d’azzardo accanito, lei è spesso sola ed è nell’elenco delle sue possibili prede future. Ora ha la figlia davanti, vestita di tutto punto che muove un passo verso il sacco.
«No, aspetta bambina. Come ti chiami?»
«Manuela. Posso vedere quante cose hai dentro per me? Sono per me, vero?» inclina la testa di lato.
‘Ma pensa che sia Babbo Natale, ‘sta qua?’
«Tantissimi regali, ma siamo in anticipo sul Natale. Poi sai, se i bambini vedono prima i regali che porterò, a loro quelli non spetteranno. Vuoi che alla fine non ti porti niente?»
«I regali li porta Babbo Natale, mica tu. Tu mica sei Babbo Natale»
«Come no?» ‘E allora chi cazzo sono?’, pensa.
«Babbo Natale sta al freddo. Non viene al caldo. Ha la barba bianca che lo protegge dal freddo. Le scarpe ortopediche, la pancia rossa». Manuela muove un altro passo verso il sacco. Lui è veloce come un ratto, allunga la mano per prenderla. Lei schiva e fa svolazzare il vestito. Corre lontano, si ferma e lo sfida, come in un gioco.
«Prova a prendermi. Ahahah!», si nasconde dietro un vagone.
Lui è fuori di sé, un cadavere ad un metro in un sacco e un serbatoio aperto sulla testa pieno di altri corpi in decomposizione. Non può accettare la sfida di una bambina di dodici anni che sghignazza alle quattro del mattino con i genitori che dormono a meno di duecento metri.
«Sssst, Manuela, cazzo», sibila accucciandosi a cercarle le gambe sotto i vagoni.
La bambina corre sfrenata tra i singhiozzi delle risa e le carrozze abbandonate. Fugge come da un solletico, sbuffa polvere dal terreno. Lui è sgretolato dalla paura che la sentano. Che qualcuno apra la finestra della casa cantoniera, magari Marianna stessa, e che li trovi lì a giocare. Anche se giocare non è proprio quello che si penserebbe, data l’ora, la circostanza e l’evidente differenza di età dei giocatori.
«Manuela, dai, vieni qui, ti faccio vedere i regali nel sacco» la supplica mentre la insegue nella notte. C’è la luna bassa e i lampioni gialli a rischiarare i ciottoli dei binari. Non vede nulla, ma sente. La ascolta ridere, la sente prendersi gioco di lui.
«Manuela! Dove sei finita? Piccola…» la chiama con la testa dentro un vagone buio già sapendo che qualsiasi bambina avrebbe paura lì dentro. C’è puzza pure per un barbone che ha abbandonato l’acqua nella sua vita precedente. Impossibile crederla lì dentro.
Manuela esce dal basso infatti: «Bù!!!». Gli agguanta una caviglia mentre è sotto la pancia del treno, china sulle ginocchia. Al tocco, lui salta come una fetta nel tostapane, preoccupato dall’urlo cacciato dalla piccola che potrebbero aver sentito. Si muove rapido, flette le ginocchia, prova ad allungare un braccio. Il colpo al naso gli arriva in pieno, inatteso come un infarto a vent’anni, mentre gira il viso di tre quarti. Il setto si sposta e si frattura pressando il frontale mascellare che si squarcia con l’urto contro il maniglione della porta scorrevole del vagone. Il calore del sangue è l’ultima cosa che prova ad afferrare con la mente prima di rotolare a pancia all’aria con le braccia piegate, gorgogliando. L’ultimo flash della notte è la gonna della bambina che gli sfiora l’avambraccio.
(fine parte seconda - segue)

lunedì 29 agosto 2011

C (parte prima)



I
E’ un uomo di poco conto. Nell’istante in cui ha capito che non avrebbe mai potuto cambiare il mondo, ha deciso che il mondo non avrebbe cambiato lui, evitando ogni futuro, ogni orizzonte. Allora si insinua nel buio delle sere e aspetta la fine grondante di colori di ogni tramonto.
«Che cosa fai per vivere?» chiede lei.
Pensa ‘Perché lo vuoi sapere? Che cosa t’importa?’. Ha il suo seno davanti, le mani sul culo. Si tiene come sul ponte di una barca lanciata a trenta nodi. I capelli scompigliati e il corpo che si flette. Le concede la risposta che dà a tutte: «Difficile da spiegare». Lo guarda curiosa mentre si concentra sul movimento ed ansima, cercando di sentirlo come un pensiero cui vai dietro per un attimo. Impossibile da perdere, impossibile da fermare.
Lui la tiene stretta per non smarrirla. Per non confondersi.
«Difficile dici?»
«Difficile, sì»
Non la guarda in viso. Non riesce a guardarle gli occhi. Non lo fa mai con nessuna. Se non guardi gli occhi non c’è modo di ricordare. Di fartela entrare dentro. Fissa la bocca, le mani, i seni, il culo. Sono cose che non rimangono. Sorride, ma non le restituisce gli occhi. La tiene per i fianchi. Segue la sua danza. Ha la saliva di fuori, la faccia disfatta. Lei usa il suo pene come un perno. Si tiene dentro solo la punta. Approfitta del vigore per strofinarselo addosso, senza farsi penetrare. Quasi a piegarlo, senza riuscirvi, il sangue affluisce regolare, il colore della pelle si scurisce.
Lui la stacca da sé, stufo di quella danza. La gira su un fianco e le agguanta una gamba sollevandola. Le mani scivolano sull’autoreggente fino all’incavo posteriore del ginocchio. Il collant ha uno strappo tra l’alluce e il secondo dito smaltato di rosso. L’aveva visto prima quando le aveva tirato via gli stivali. Gli consegna un’immagine di lei, sfatta, che lo eccita ancora di più. La prende da dietro, lei geme con un dito di lui in bocca. Ha l’anta dell’armadio davanti, la sua pelle bianca tra le mani. Prende a martellarle il basso ventre mentre lei l’asseconda.
Le sussurra: «Cazzo vuoi?», stringendo le labbra, non smettendo di tamponarla.
Lei gira gli occhi, vorrebbe rispondere, ma ha il suo indice tra i denti. Si limita a mugugnare. Lui sa che lo sente fino in pancia. Sa che le piace e che può goderne allo spasmo. Lei geme come un corridore sul traguardo, lo legge nella mano che gli appoggia su un fianco a spingerlo dietro, costringendolo a muoversi sempre più da lontano. Come il carrello otturatore di una Beretta che ricarica arrivando a fine corsa, pronta per lo sparo successivo.
Senza far rumore, stringendole un seno, è bello pensare che le farà una crepa nella vita.


II
Si alza. Si sporge a guardare la sera a Porto Ceresio. Lei dorme, gli dà la schiena. Mostra i capelli, i fianchi magri, scavati, le fossette di venere. Fuori c’è odore di ristorante e di bruciato. Il lago è qua, ma non si sente. Lui anche è qua. Ha i capelli arruffati, i peli sul petto gli danno caldo. Ha il sudore misto al suo, odora diverso il suo corpo. Si passa una mano, si tocca il ventre, si stira il cazzo. E’ ora di andare a lavoro.
Fa il giro del letto e raccoglie le mutande. Le indossa insieme alla camicia, la tiene aperta. Ritorna alla finestra a prendere i pantaloni sulla sedia sotto. Lascia solo i piedi nudi sulla moquette. Torna da lei. Le stampa un bacio sulla fronte. Lei mugugna e lui le appoggia un altro bacio sulle labbra. Ha gli occhi aperti ora, il viso gualcito. Lo vede in piedi che le accarezza la testa. Lui sorride e le appoggia l’altra mano dietro al collo. Col pollice le accarezza dolcemente la mascella. Lei struscia i piedi sotto il lenzuolo. Si rilassa e gli mostra un bacio con le labbra, con un occhio semichiuso. Il rumore del collo che si spezza è quello di una corda tesa, di una bacchetta cinese su un tamburo. E’ competente in quello che fa, rapido ed esperto. Si alza e appoggia la testa di lei su un fianco. Ora sembra davvero che dorma di un sonno naturale e appagante.
Torna alla finestra a prendere le sigarette sul davanzale. In cucina accende il fuoco sotto al caffè, aspetta che esca e lo versa in una tazzina. Lo beve con tutta la calma della notte sul lago. Quella tranquillità di chi prolunga ancora la serenità della propria casa al mattino, prima di scendere nel mondo. E’ notte fonda, però, e c’è da lavorare ora.
Nello sgabuzzino trova il sacco di juta e i guanti da indossare. Lo sistema di fianco a letto. Smuove il lenzuolo nel quale si era avvolta ‘Come si chiamava?’, le tira il braccio e la caviglia. La divarica come un pupazzo e la trascina sul telo. In bagno riempie la vasca di acqua fredda. Si tira dietro il corpo fino alla vasca prendendo i lembi del telo di juta. Un braccio della donna si incastra contro la zampa del letto. E’ costretto ad incrociarle entrambi gli arti sul sesso, sperando che non ricadano. Sul bordo della vasca, la solleva per la prima volta. Pensa ad uno spaventapasseri di quarantacinquequarantaseichili. Nell’acqua piccole bollicine danzano dai pori della pelle fino in superficie. Con la spugna la deterge da capo a piedi, prima davanti, poi dietro. Quando ha finito la gira come un pollo allo spiedo, con la testa all’ingiù. Le lava i capelli, tira il tappo della vasca e col telefono la sciacqua dal sapone. Con sforzo la risistema sul sacco nero, prende l’asciugamano grande e inizia a tergerla. Raccoglie le forbici dal cassetto e le taglia le unghie. Nel mobiletto di fianco allo specchio c’è il borotalco. Lo sventaglia su tutto il corpo, stando attento a non buttarlo fuori dal telo. Nello scrittoio in salotto trova il cartellino con l’elastico e il pennarello. ‘XCIX’ è quello che spunta attaccato all’alluce di lei che viene avvolta nel sudario di juta. Sono le tre del mattino. Su una piccola Moleskine nera presa dal cassetto dello scrittoio annota il numero romano ed il nome corrispondente. Ne manca soltanto una e avrà vinto la scommessa con se stesso: cento vittime. Si sporge alla finestra e si accende una nuova sigaretta. Pensa distintamente che il bene non esista, il male sì.
(fine parte prima - segue)

mercoledì 11 maggio 2011

Non c'è più tempo


Sono qui che tremo. Appoggiato alla balaustra, tremo. Senza più gambe e piedi, né braccia e mani.
Guardo indietro, senza chiedere più nulla a quello che è già passato. Giro gli occhi davanti per riconoscere i luoghi. E ritrovo la mia famiglia, a pochi metri. Festanti mi urlano i ce l’hai fatta, i come stai. Gli rispondo con quello che è rimasto. Poco a dire il vero. Ma è quello che si vede fuori, dentro sgombro i pensieri, apro le porte alla fantascienza. Quei nove minuti di pioggia, freddo e sudore di una notte invernale si sono dilatati fino all’impresa di quattro ore e nove minuti che leggo sul display che sormonta Via de’ Fori Imperiali e s’incastona dentro il Colosseo. Col tempo finalmente fermo.
Corri per 42 chilometri dentro ad un paio di scarpe che alla fine i tuoi piedi non riconoscono più. Viaggi un chilometro dopo l’altro nella tua testa, pensando tutto contemporaneamente, prima mescolando, poi ordinando le cose una ad una. Provi l’ordine alfabetico, quello cronologico, poi come viene. Alla fine non hai più nessun pensiero da afferrare o rivedere. Oltre a quello del tempo che si dilata e si restringe come la polvere che viene giù da una clessidra panciuta che poi si strozza.
E scopri che c’è tempo per commuoverti di fronte all’università al quinto chilometro, dentro la città che conosci a memoria. Trovi il tempo di correre con tua madre che ti sorride ed insegue anche lei il sogno, come ha sempre fatto con i tuoi miraggi. C’è tempo per stringere tuo padre e dirgli che stai bene, guai se non fosse così al tredicesimo chilometro. C’è tempo per i dolori, soprattutto per quelli mai diagnosticati a nessuno, ad organi che non esistono. C’è tempo per la fame e la sete, il caldo ed il freddo, tutto all’ennesima potenza perché stai vivendo una vita, ma sono due, o dieci. Perché c’è tempo per correre sul lungomare col vento d’estate, al tramonto in primavera, ma questa è un’altra cosa. Qui ci sono brezze e crepuscoli infiniti che smetti di contare perché rischi di impazzire. E quando il fisico non ti assiste più, è la mente che devi tenere sgombra. Perché c’è chi lo sa bene e chi se ne scampa. In quello che stai facendo c’è tempo per gli applausi iniziali, le foto durante e le urla sul finale, quando sei una busta vuota sformata dal vento e seccata dal sole. C’è tempo per ripetere gli stessi gesti che non ti salvano dall’annullamento, ma tutto serve, non si butta via niente, nemmeno ai rifornimenti. Perché senti ad ogni passo che il fisico cede, ha già ceduto e ringrazi che non è ancora successo, che ti sia fermato, urlante, negli occhi di chi è il tuo futuro e disegna con le labbra le parole ti amo ad ogni tuo passaggio. Perché c’è tempo per arrivare anche lì, da dove sei partito, senza altri giri. Piegato, con le braccia al cielo, un amico vicino ed una medaglia che aspetta che tu finisca di srotolarti il mondo dietro.
E allora davvero non c’è più tempo per pensare a cosa è stato o a perché lo hai fatto, come se tutto fosse inutile e parlassi da solo. Il tuo gesto è lì, davanti a chi nemmeno sa di quanti chilometri è fatta una maratona o lo sa solo perché l’hai corsa tu. E il tuo cronometro è immobile e anche quello in alto. Così si fermano i crampi, le risate e i pianti, le bande e le feste. Rimane un nome, un numero, per tutti loro. Tu hai il sale sulla pelle che se ne andrà con la prima doccia in cui sei te stesso perché ti sei sentito e ti sei visto, da fuori, combattente baldanzoso con un’armatura sempre più pesante. Perché hai corso lì per perdere tutto, ma mai per perderti. E c’è poco da dire. Non c’è già più tempo per fermarsi.

[L'articolo è stato pubblicato sul sito www.ilmondodipat.it, spazio dedicato interamente al running]

giovedì 7 aprile 2011

Per sempre (parte seconda)

[Clicca qui per leggere la Prima Parte]

Riuscì ad arrivare trafelato all’appuntamento nonostante il pomeriggio libero passato in giro ad arredare il tunnel in cui era rinchiuso dalla mattina.
Un tavolo a suo nome. Ovviamente.
Si sedette in attesa ed ordinò del prosecco.
Il cameriere fu rapido, lo colse di lato, assorto nei suoi pensieri ed insieme al calice vide la busta. L’ultima, sperava.
Si guardò intorno e decise che non fosse prudente aprirla lì. La tastò ed individuò il cd.
In bagno lesse il resto quasi sbavando: “Ti restituisco la tua vita. Ridalle la sua, il marito che ama”, laconico.
Lei arrivò emozionata e sorpresa, quanto lo era stata quando la segretaria del marito le aveva riferito il messaggio con l’appuntamento, senza preavviso. La vide per primo ed andò a prenderla, alzandosi dal tavolo.
Quasi non credeva ai suoi occhi. Il tempo di quella giornata che non si era vergognato mai di essere crudele, gli riconsegnava stasera sua moglie, intatta, con  l’amore che leggeva nei suoi occhi, puro. Senza rumori, come spesso accade quando si ama.
Le diede l’anello poco dopo, tra la prima e la seconda portata. L’estasi non li abbandonò mai. Lei gli strinse la mano con la sua per il resto della cena lasciandogli intendere che quella notte non se la sarebbe cavata con dieci minuti di straordinario sotto le coperte, nella stanza da letto nuova.
Quando il cameriere si avvicinò e si abbassò per parlare ad entrambi, un brivido gli percorse la schiena.
«Questa sera» fece il giovanotto «la riffa consueta del venerdì del Cafè de Russie mette in palio per i suoi ospiti un abbonamento a quotidiani e riviste, signori. Vi lascio i biglietti». Glieli porse mentre riceveva il ringraziamento di lei ed il respiro profondo di lui.
Arrivarono al dolce quando vinsero la lotteria, insieme ad altri tre tavoli. L’avvocato, tra i complimenti dello staff alla reception, scrisse l’indirizzo della loro casa appena comprata con la sua Mont Blanc. Dalla prossima settimana “La Repubblica” sarebbe arrivata a domicilio. Con tanti saluti e baci a questa giornata.
Quella notte accese il portatile e verificò il contenuto del cd-rom. Aveva mantenuto le promesse: era tutto lì, immagini anche di sesso esplicito. Interni ed esterni. Carrellate e primi piani.
Spinse il tasto ed il supporto gli fu restituito intatto prima che lo frantumasse tra le dita per gettarlo nella 48 ore usata la mattina.
Il resto della notte furono sospiri e carezze, senza pause. Amanti senza testimoni. O almeno così sperava.

Quando il socio lo chiamò dalla sede di Firenze direttamente al suo numero interno, otto giorni dopo, rispose dopo mezzo squillo.
Fece appena in tempo a vedere che la moglie faceva trillare il suo cellulare nello stesso istante.
Ebbe la forza di prendere il giaccone e di infilare la porta.
Raggiunse il casello autostradale in un’ora, direzione “lontano”.
Si fermò all’autogrill, in preda al panico. Il dolore al costato ed il respiro affannoso lo rassicurarono. Pareva ancora vivo.
Tra il bar e l’edicola non fece in tempo neanche a finire il bicchiere d’acqua  e a sfogliare il giornale che aveva preso.
La cassiera tentò di fermarlo urlando, ma era già andato.
I fogli sparsi in terra che la ragazza ricompose nella rastrelliera le fecero pensare che ormai per il paginone centrale de “La Repubblica” i pubblicitari non avevano più idee. “Tuo marito è per sempre?” e le foto a puzzle di decine di donne con uno sconosciuto, sempre lo stesso uomo.

«Aspetta…» sussurrò la cassiera «… Ma questo era…»

mercoledì 6 aprile 2011

Per sempre (parte prima)

“Tua moglie e i tuoi figli vorrebbero sapere” iniziava il biglietto.
L’aveva aperta la segretaria e dalla fretta con cui gli aveva portato in stanza la busta gialla, aveva già compreso la gravità della vicenda.
Anche lei aveva visto, sebbene poi avesse richiuso in fretta il contenuto per consegnare il plico al legittimo destinatario. Niente timbri, niente date. Consegnata a mano.
“Hai 24 ore di tempo per effettuare lo scambio: 30.000 euro in contanti in cambio dell’unica copia del materiale in mio possesso. Alle 9 di domani mattina tua moglie saprà tutto. Non voglio solo i tuoi soldi, farò in modo che ti portino via tutto. Per sempre.” Stop. Nient’altro nel biglietto scritto al computer in bella vista ora sul suo tavolo.
Solo dieci foto che lasciavano immaginare chissà quale altro materiale pronto ad essere diffuso.
Gli ultimi mesi della sua vita parallela, adagiata sulle bugie, sui tradimenti, sulle scappatelle più o meno consenzienti, sui favori sessuali che aveva preteso.
Dettagli intimi che rassegnavano le vicende squallide della sua vita artefatta. Uno studio ormai avviato, interessi e fatturati per milioni di euro, clienti che si fidavano, collaboratori cui avrebbe dovuto spiegare. Due figli piccoli e una moglie giovane. Ma il totale, se sommato, ora faceva zero. Lo squallore della sua biografia scritta con le immagini nitide che aveva innanzi. L’epitaffio redatto in Arial su di un foglio.
Chiuse la porta. Il messaggio non riportava dove sarebbe avvenuto lo scambio, quindi l’anonimo si sarebbe messo in contatto. Lui non avrebbe provato a trattare, certo, ma avrebbe preteso la garanzia dell’esclusiva. Anche se non sapeva ancora come.
Annullò ogni appuntamento per la giornata e impartì ordini a tutti mentre correva nel corridoio. Scadenze da gestire tra mesi, qualsiasi cosa pur di sembrare sul pezzo nonostante la voglia forte di vomitare da dieci minuti.
Mentre usciva rigurgitò alla segretaria: “Girami tutte le chiamate sul cellulare”.
Quando si sedette in macchina si impose di essere lucido ed incontrovertibile.
Dieci minuti dopo era in banca, tra i saluti di tutti e il suo sorriso sghembo in quella mattinata in cui il cielo pareva scomparso, d’un tratto.
Si sedette nel caveau mentre attendeva l’arrivo dei 30.000 euro in contanti addebitati sul conto di studio. Quando la direttrice accompagnò l’impiegato con le mazzette, aveva già tutte le frasi in testa. Ciò che avrebbe detto. Nell’attesa. A chiunque.
Fece disporre le banconote nella 48 ore recuperata dal bagagliaio dell’auto, senza toccare nulla.
Congedò tutti in fretta e si diresse all’uscita. Fu a metà strada che Michela lo chiamò. «Avvocato, non dimentichi questa» mentre gli porgeva una busta bianca, sigillata «L’han portata stamane, avevan detto che sarebbe passato».
Avrebbe voluto domandare chi, ma gli uscì solo «Grazie» mentre infilava la lettera nella tasca della giacca.
In macchina respirò ed aprì. “Ore 13. Il tuo gioielliere ti aspetta. Passa dal retro”.
In Via Frattina, 13:03. Lì aveva comprato le fedi, quattro anni prima. Passò dal retro e Giovanni lo intravide dietro le saracinesche a metà.
Gli sorrise. Lo aspettava.
«Avvocato, sempre puntuale, la trovo in ottima forma, ma come sta?».
Tra chiacchiere estemporanee, con un paio di sguardi all’orologio gli fece capire che andava di fretta «Sa, gli affari…».
«Ma certo, certo. Sempre di corsa lei, però non perde mai l’occasione per regalare dei bei gioielli a sua moglie» mentre tirava fuori da sotto il tavolo la scatola nera. Ormai era in balìa degli eventi, pensò a stento.
Il diamante era strepitoso, senza eguali: un anello di insolita bellezza, intarsiato e lavorato come solo Giovanni aveva la premura di fare. Da oltre quarant’anni.
Pagò i 30.000 euro senza chiedere nulla su chi avesse ordinato quel gioiello, per lui. Diede quello che doveva, senza ottenere sconti o tirare sul prezzo. Non stavolta.
«Anche questa è sua» fece mentre infilava in un sacchetto la busta sigillata insieme alla scatola.
«Perfetto, grazie Giovanni. Sempre eccezionale!» si sforzò di dire.
Stavolta non arrivò alla macchina. Strappò la busta e respirò a fondo. “Ore 19:30 Cafè de Russie. La tua serata indimenticabile. Porta quello che hai ritirato poco fa. Avrai tutto indietro.” [...continua...]

lunedì 3 gennaio 2011

Per ricordare una parte del 2010...

NEL CASSETTO 2010

  • Fango - N. Ammaniti ***½
  • La lunga notte del Dottor Galvan - D. Pennac ***½
  • Io e te - N. Ammaniti ***+
  • Sbarcare il lunario - P. Auster **
  • Maratoneti - M. Patucchi ****
  • Acciaio - S. Avallone ***½
  • Invisibile - P. Auster ***½
  • Un tuffo nella luce - G. Romagnoli ***
  • Io sono Dio - G. Faletti **½
  • La sottile linea scura - Joe R. Lansdale ***½
  • L'ultima lacrima - S. Benni ***½
  • Il libro delle illusioni - P. Auster ****-
  • L'uomo nel buio - P. Auster ****
  • La baracca dei tristi piaceri - H. Schneider ***
  • Le perfezioni provvisorie - G. Carofiglio ***½
  • The Dome - S. King ***
  • L'arte di correre - H. Murakami ****
  • Che la festa cominci - N. Ammaniti ***+
  • Tre camere a Manhattan - G. Simenon ***½
  • Totale libri: 18

GLI OSCAR 2010

  • Persons Unknown (13 episodi) ***+
  • Unstoppable - Fuori controllo ***+
  • Il Padrino - Parte II ****
  • Cattivissimo me ***
  • Romanzo criminale 2 - La serie (10 episodi) ****
  • Innocenti bugie **½
  • La donna della mia vita ***-
  • Ad occhi chiusi **½
  • Stanno tutti bene ***½
  • Buried ***
  • Oltre le regole - The messenger ***
  • Cosa voglio di più **½
  • Salt ***
  • Il pianista ***+
  • Kung Fu Panda ***+
  • Wall Street - Il denaro non dorme mai **½
  • Benvenuti al sud ***½
  • Wall street ***
  • La nostra vita ***+
  • The score **½
  • Inception ****+
  • The Losers **½
  • Baciami ancora ***+
  • The invention of lying ***+
  • Giustizia privata ***+
  • Miracolo a Sant'Anna ***
  • The box **
  • Il grande sogno **
  • From Paris with love *
  • Basilicata coast to coast ***½
  • Cacciatore di ex **½
  • Happy family ***
  • Giorni e nuvole ****
  • L'uomo nell'ombra ***
  • Il segreto dei suoi occhi ****+
  • E' complicato ***½
  • Green zone ***
  • Danny the Dog **½
  • Ricatto d'amore **½
  • Colazione da Tiffany ****
  • Lost 6th season (18 episodi) ***
  • The road ****-
  • Robin Hood **½
  • Piacere, sono un po' incinta **½
  • Il laureato ***½
  • Io & Marilyn **½
  • Boris 3 (14 puntate) ***
  • Shutter Island ***½
  • Reign over me ***½
  • Che fine hanno fatto i Morgan? **½
  • La promessa ****-
  • (500) giorni insieme ***+
  • Diverso da chi? **½
  • Cado dalle nubi **
  • La prima cosa bella ****-
  • Notte brava a Las Vegas **½
  • Tra le nuvole ***
  • Crash ***
  • Sherlock Holmes ***
  • Avatar ***½
  • Io, loro e Lara ***
  • Una notte da leoni ***+
  • Questione di cuore ***+
  • Un alibi perfetto **
  • The reader ****-
  • Planet 51 ***
  • Totale film: 62
  • Totale serie tv: 4

CONCERTI 2010

  • Stadio (S. Terenzo) ***
  • Morricone dirige Morricone (Auditorium) ****-
  • Totale concerti: 2

TEATRO 2010

  • Piccoli crimini coniugali di Eric-Emmanuel Schmitt con Claudia Mei (Teatro Italia) ***½
  • Io e Te di T.O.Zinzi con Claudia Mei (Accademia Romania) ***
  • Il Dolore di M. Duras con M. Melato (Teatro Valle) ***½
  • Totale spettacoli: 3