Ci sono periodi in cui fai canestro da ogni parte del campo e non è il caso di sedersi in panchina. Altri in cui centrare una vasca da bagno è come disegnare quadri senza l’uso delle braccia. Il problema, spesso, è far coincidere questi due momenti con le partite che si giocano. Dipingere coi moncherini ad una finale NBA era da tribuna, nemmeno da panchina. Magari la sera prima, al campo scuola, segni ad occhi chiusi da sopra lo sportello della macchina nel parcheggio, tra gli sguardi attoniti dei ragazzi in calzoncini. Ma non ha lo stesso peso.
L’estate dei miei 35 anni ero in tribuna a guardare il mio matrimonio. Fuori forma e depresso perché alle finali – Caterina era sempre stata la partita più importante da giocare – non riuscivo nemmeno a palleggiare a dovere. Il time out per me durò tutto il mese di agosto in cui rimasi solo nella nostra città. E la conobbi.
Aveva 25 anni, un fragile vestito rosso ed i seni che minacciavano di uscire fuori dall’orlo, la prima volta che la vidi. Segnai il primo canestro raccogliendo un pallone che non sapevo di avere, da metà campo. Così, senza neanche aver smesso la tuta. Raccolse il mio sorriso timido e fugace e sentii il rumore della retina quando la palla entra pulita, senza incertezze.
Il corso che frequentammo i primi tre giorni di agosto lo guardai da lontano come una linea all’orizzonte confusa tra le teste di quelli davanti. Di quelle ore mi ricordo il profumo che portava e i capelli rossi vicino, durante le lezioni. Il resto fu un tiro in sospensione, ispirato. Perché fai canestro da ogni parte del campo in questo spazio in periferia.
Una settimana dopo non finimmo la cena in casa. La spogliai in terrazzo, tra gli occhi indiscreti d’agosto. Quelli che non si rassegnano al coma cittadino e sperano in nuove forme viventi, magari fuori dalla finestra alle dieci di sera. Rantolammo esausti per terra per due settimane. Nel canestro della mia spazzatura contai più preservativi che bottiglie di birra. Una rarità persino dieci anni prima.
Sentirla addosso era dondolarsi su un’amaca a due passi dall’oceano, immaginare il futuro e poi cancellarlo. Ci perdemmo in una sera fresca d’alta marea: mi guardò negli occhi e suonò la sirena sull’ultimo tiro dicendo “Questa è l’ultima volta”.
Tornai alla mia vita non sapendo cosa ci fosse al di qua delle siepi che avevo trascurato di potare per un mese intero. Ripresi il controllo di quello che avevo e lo mantenni anche quando ebbi molto di più. Per tutto questo tempo.
«Perché me lo racconti?» mi domandi. «Non sei in fin di vita, sembra una confessione da ultima ora».
Perché ho sempre amato tua nonna. E la sogno anche ora che non c’è più. Ho dentro l’ombra di quel mese delirante di giovinezza, mischiato con la vita che è il resto. Ho smesso di giocare tempo fa, è vero, ma so che potrei metterla dentro anche ora. Basta solo staccare la flebo, ad esempio. Andare in giro per l’ospedale quando l’attesa si dilata e rischi che la marea ti trasformi in un’isola. In un mese di degenza vedi passare tutto su barelle o sedie a rotelle, bloccato. Magari in dissolvenza. Lei si è spenta stanotte.
«Lei… ?» mi chiedi.
Lei che non vedevo dal mese in cui ci salutammo. Che aveva i capelli rossi sul cuscino bianco, ora come allora. Lei, assopita senza coscienza dopo secoli. Ha aperto gli occhi, sorriso e l’ha detto, stringendomi un polso. Come se la marea non fosse mai salita quella sera d’agosto di mille anni fa.
Ho smesso di giocare ora, senza sapere che ero ancora in campo. Si è sbagliata trent’anni fa, ma non stanotte. Questa è l’ultima volta.
Portami a casa, piccola mia.