Guardo indietro, senza chiedere più nulla a quello che è già passato. Giro gli occhi davanti per riconoscere i luoghi. E ritrovo la mia famiglia, a pochi metri. Festanti mi urlano i ce l’hai fatta, i come stai. Gli rispondo con quello che è rimasto. Poco a dire il vero. Ma è quello che si vede fuori, dentro sgombro i pensieri, apro le porte alla fantascienza. Quei nove minuti di pioggia, freddo e sudore di una notte invernale si sono dilatati fino all’impresa di quattro ore e nove minuti che leggo sul display che sormonta Via de’ Fori Imperiali e s’incastona dentro il Colosseo. Col tempo finalmente fermo.
Corri per 42 chilometri dentro ad un paio di scarpe che alla fine i tuoi piedi non riconoscono più. Viaggi un chilometro dopo l’altro nella tua testa, pensando tutto contemporaneamente, prima mescolando, poi ordinando le cose una ad una. Provi l’ordine alfabetico, quello cronologico, poi come viene. Alla fine non hai più nessun pensiero da afferrare o rivedere. Oltre a quello del tempo che si dilata e si restringe come la polvere che viene giù da una clessidra panciuta che poi si strozza.
E scopri che c’è tempo per commuoverti di fronte all’università al quinto chilometro, dentro la città che conosci a memoria. Trovi il tempo di correre con tua madre che ti sorride ed insegue anche lei il sogno, come ha sempre fatto con i tuoi miraggi. C’è tempo per stringere tuo padre e dirgli che stai bene, guai se non fosse così al tredicesimo chilometro. C’è tempo per i dolori, soprattutto per quelli mai diagnosticati a nessuno, ad organi che non esistono. C’è tempo per la fame e la sete, il caldo ed il freddo, tutto all’ennesima potenza perché stai vivendo una vita, ma sono due, o dieci. Perché c’è tempo per correre sul lungomare col vento d’estate, al tramonto in primavera, ma questa è un’altra cosa. Qui ci sono brezze e crepuscoli infiniti che smetti di contare perché rischi di impazzire. E quando il fisico non ti assiste più, è la mente che devi tenere sgombra. Perché c’è chi lo sa bene e chi se ne scampa. In quello che stai facendo c’è tempo per gli applausi iniziali, le foto durante e le urla sul finale, quando sei una busta vuota sformata dal vento e seccata dal sole. C’è tempo per ripetere gli stessi gesti che non ti salvano dall’annullamento, ma tutto serve, non si butta via niente, nemmeno ai rifornimenti. Perché senti ad ogni passo che il fisico cede, ha già ceduto e ringrazi che non è ancora successo, che ti sia fermato, urlante, negli occhi di chi è il tuo futuro e disegna con le labbra le parole ti amo ad ogni tuo passaggio. Perché c’è tempo per arrivare anche lì, da dove sei partito, senza altri giri. Piegato, con le braccia al cielo, un amico vicino ed una medaglia che aspetta che tu finisca di srotolarti il mondo dietro.
E allora davvero non c’è più tempo per pensare a cosa è stato o a perché lo hai fatto, come se tutto fosse inutile e parlassi da solo. Il tuo gesto è lì, davanti a chi nemmeno sa di quanti chilometri è fatta una maratona o lo sa solo perché l’hai corsa tu. E il tuo cronometro è immobile e anche quello in alto. Così si fermano i crampi, le risate e i pianti, le bande e le feste. Rimane un nome, un numero, per tutti loro. Tu hai il sale sulla pelle che se ne andrà con la prima doccia in cui sei te stesso perché ti sei sentito e ti sei visto, da fuori, combattente baldanzoso con un’armatura sempre più pesante. Perché hai corso lì per perdere tutto, ma mai per perderti. E c’è poco da dire. Non c’è già più tempo per fermarsi.
[L'articolo è stato pubblicato sul sito www.ilmondodipat.it, spazio dedicato interamente al running]
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