C’è il cielo stracciato di settembre sulla costa ovest del mondo. Corre con la sabbia nelle scarpe fuggendo dai cani al galoppo, tra bambini e aquiloni.
Lei l’aspetta in veranda, sdraiata sul lettino. La mano ferma sul ventre, gli occhi rossi nelle scorie del tramonto. Il sorriso è di chi sa che ogni cosa è stata possibile. E tutto ciò che non è stato è solo perché non ne valeva la pena. Né qui, né in qualunque parte della loro vita. L’idea di perdersi, un punto d’arrivo, non una sconfitta.
Ha la maglia zuppa di sudore e il respiro scarico d’aria, dopo mezz’ora di jogging sul filo dell’oceano. Lei s’alza a fatica negli ultimi tempi, ma lo fa comunque per accoglierlo e intrecciarlo in un abbraccio.
La vita li fissa senza fiato. Entrambi, seppure per motivi diversi.
«Mi sei mancata», baciandola. «Come ti senti?»
«Ora che c’è il tuo odore, bene», ma il viso non si sforza di mentire come all’inizio di tutto.
Lui le passa una mano sulle spalle, un’altra dietro le ginocchia. La solleva piano per non spezzarla. «Vieni, ti lavo i capelli oggi». Lei ha il sorriso dell’abbandono, di chi ha sognato nella notte, ha perso il ricordo e lo ricerca nei profumi intorno. Non oppone resistenza al vento che le scompiglia la faccia e al tramonto che le strizza gli occhi. Ha il sapore degli ultimi giorni in bocca, l’odore della loro casa chiusa da mesi, lontano. Lui le appoggia il naso sulla fronte e le tende le labbra, lasciandole lì. La lacrima che perde scivola rapida sulla testa spoglia di lei.