Il suo respiro è la cosa più vicina al silenzio. Si muove tra stracci e scatoloni come un malato di Calcutta. Per due notti a settimana è il padrone della Roma sudicia. Zona stazione Termini.
Non c’è mai tempo per compiere un lavoro preciso. Altri lo faranno per lui all’alba. Raccoglie quello che è fuori, seleziona il materiale di scarto tra quelli già scartati e lo tira dal basso nel cassone sghembo del camioncino.
Sposato, con un figlio, non vede l’ora di farsi sbranare da Miriam, la collega che attacca mezz’ora dopo di lui. Un rito rapido e indolore. Una flebo in vena due volte a settimana, in mezzo al turno, nel deposito di fianco alla Caritas, tra gli scatoloni di vita dei barboni qualche metro più in là.
Quando se la trova innanzi dietro il cestino, comincia a piovere. Il rosso gli ricorda l’ultimo tapis roulant in cui ne ha vista una identica all’aeroporto tra altre decine. Di quelle borse che ti regalano con centomila punti benzina e che stingono alla prima pioggia di una notte di dicembre presa a caso. Lasciando chiazze rosse sull’asfalto.
Con la faccia sciolta sotto il cappuccio arancione della divisa, si guarda intorno, fantasma con lo scheletro zuppo. L’assale il silenzio abitato da qualcosa di pericoloso, innescato e pronto a saltare. Qualcosa che solo una valigia rossa abbandonata alla stazione centrale di Roma può conservare. E che lui dovrebbe caricare sul cassone mascherata da spazzatura. Dimenticandosi la moderna era criminale e ricordando che Roma non sarà mai colpita da un attentato, “C’è il Vaticano, qui”.
La voce di lei squarcia la pioggia: «Che fai stasera, ci pensi su? Dai, che ho voglia di te» gli grida Miriam sporgendosi dal finestrino del camioncino sopraggiunto «Finisco il giro a Piazza della Repubblica, t’aspetto al deposito».
Lui accenna un sorriso innaffiato, segue i fanalini di coda fin dietro l’angolo. Un tuono lo desta del tutto. Raccoglie le scatole, gli stracci e i sacchi con i guanti zuppi. Si chiude la portiera addosso e innesta la marcia. Morirà sì, ma non stanotte con una valigia rossa in grembo.
Seduti sulla panca negli spogliatoi di fianco al deposito, lei si arrampica su di lui, vorace. Le tute in terra allargano una pozza d’acqua sul pavimento. Non pensa a nulla, ascolta il suono del temporale contro le vetrate della sala fredda. Lei si dà da fare col viso nascosto dai lunghi capelli bagnati. Si sente scomodo come Bush in una passeggiata per le vie di Baghdad. Poi la vede e capisce.
«Mì, ma quella valigia dove l’hai presa?»
«Ah sì… l’ho trovata a Repubblica. Volevo vedere che c’era dentro... Pesa un quintale, c’ha un lucchetto» ravviandosi i capelli.
Il tuono della consapevolezza lo devasta ancor prima dell’esplosione di quella e delle trenta valigie sparse nella capitale.
A Piazza della Repubblica un nottambulo coi piedi in una chiazza rossa guarda Roma nel fragore che sprofonda. Non sa di essere vivo per miracolo.
Non c’è mai tempo per compiere un lavoro preciso. Altri lo faranno per lui all’alba. Raccoglie quello che è fuori, seleziona il materiale di scarto tra quelli già scartati e lo tira dal basso nel cassone sghembo del camioncino.
Sposato, con un figlio, non vede l’ora di farsi sbranare da Miriam, la collega che attacca mezz’ora dopo di lui. Un rito rapido e indolore. Una flebo in vena due volte a settimana, in mezzo al turno, nel deposito di fianco alla Caritas, tra gli scatoloni di vita dei barboni qualche metro più in là.
Quando se la trova innanzi dietro il cestino, comincia a piovere. Il rosso gli ricorda l’ultimo tapis roulant in cui ne ha vista una identica all’aeroporto tra altre decine. Di quelle borse che ti regalano con centomila punti benzina e che stingono alla prima pioggia di una notte di dicembre presa a caso. Lasciando chiazze rosse sull’asfalto.
Con la faccia sciolta sotto il cappuccio arancione della divisa, si guarda intorno, fantasma con lo scheletro zuppo. L’assale il silenzio abitato da qualcosa di pericoloso, innescato e pronto a saltare. Qualcosa che solo una valigia rossa abbandonata alla stazione centrale di Roma può conservare. E che lui dovrebbe caricare sul cassone mascherata da spazzatura. Dimenticandosi la moderna era criminale e ricordando che Roma non sarà mai colpita da un attentato, “C’è il Vaticano, qui”.
La voce di lei squarcia la pioggia: «Che fai stasera, ci pensi su? Dai, che ho voglia di te» gli grida Miriam sporgendosi dal finestrino del camioncino sopraggiunto «Finisco il giro a Piazza della Repubblica, t’aspetto al deposito».
Lui accenna un sorriso innaffiato, segue i fanalini di coda fin dietro l’angolo. Un tuono lo desta del tutto. Raccoglie le scatole, gli stracci e i sacchi con i guanti zuppi. Si chiude la portiera addosso e innesta la marcia. Morirà sì, ma non stanotte con una valigia rossa in grembo.
Seduti sulla panca negli spogliatoi di fianco al deposito, lei si arrampica su di lui, vorace. Le tute in terra allargano una pozza d’acqua sul pavimento. Non pensa a nulla, ascolta il suono del temporale contro le vetrate della sala fredda. Lei si dà da fare col viso nascosto dai lunghi capelli bagnati. Si sente scomodo come Bush in una passeggiata per le vie di Baghdad. Poi la vede e capisce.
«Mì, ma quella valigia dove l’hai presa?»
«Ah sì… l’ho trovata a Repubblica. Volevo vedere che c’era dentro... Pesa un quintale, c’ha un lucchetto» ravviandosi i capelli.
Il tuono della consapevolezza lo devasta ancor prima dell’esplosione di quella e delle trenta valigie sparse nella capitale.
A Piazza della Repubblica un nottambulo coi piedi in una chiazza rossa guarda Roma nel fragore che sprofonda. Non sa di essere vivo per miracolo.
stai facendo un lavoro sulla descrizione (ne sei cosciente??), usi parole tipo "sghembo", "zuppo"..e fai dell'uso dei colori che non ti ho mai visto fare. ;)
RispondiEliminabello mi piace..riesci a rapirmi come sempre..
RispondiEliminaforse è solo un pò contorto all'inizio..!
anch'io vorrei scrivere stasera..ma non so perchè qualcosa mi frena..che brutta sensazione!
bacio Tato,
Giuls.