lunedì 10 agosto 2009

Intanto

Così è come deve andare. Arriva con il caldo al posto del freddo l’ultimo capodanno dell’umanità, segno che il sentiero ordinato delle cose è già interrotto da qualche parte. Giunge in anticipo di dieci giorni, ma non inatteso. La Terra è ferma da settantadue ore. La giostra riprenderà la corsa in senso contrario invertendo gli equilibri di un pianeta spopolato.
Tutti accorrono al botteghino a pagare l’ultimo biglietto per vedersi morire. A mezzanotte tutto quello che si conosce sarà perso in una lancetta d’orologio, da nord a sud. Scomparso come in un gioco da prestigiatore.
V. è con gli amici di una vita ed una bottiglia di vino semivuota. Suda mentre ricorda a se stesso che c’è gente intorno: il conto della sua esistenza non è pari a zero. Ansima di caldo nonostante sia immobile da mesi aspettando una qualunque guerra per uscire di trincea urlando, con un fucile scarico ed un nemico che non arriverà nemmeno stavolta. Nonostante tutti stiano attendendo la fine del mondo con le luci accese e i telefoni che squillano ovunque per sentire se ancora c’è vita nella bocca di chi si conosce.
L’ultimo tg che vede, sullo sfondo, rammenta che in Russia e in Giappone è già chiusa la partita, dato il fuso anticipato. Le telecamere lasciate accese inquadrano piazze deserte: chi c’era, già non c’è più. Il mondo perde persone come foglie che si staccano dagli alberi.
Ci vuole solo un minuto per scomparire, ma molto di più per salutarsi, a quanto pare. Il party dura da ore. V. ha dato un bacio alla mamma, chiamato quei tre amici all’estero che scompariranno dopo di lui, indossato il casco per l’ultima corsa in moto, giungendo qui. Ha perso per strada il coraggio di chiamarla. Non sa nemmeno dove sia in questo momento. Conoscendola potrebbe essere a Wellington dove solo tra dodici ore il destino si compirà. E avere l’ennesimo vantaggio su di lui.
E’ appena trascorso il giorno ad Atene, Belgrado e Bucarest. La prossima capitale è Roma: le telecamere incorniciano ora Piazza del Popolo. La gente euforica e disperata brinda e piange, mancano sessanta minuti. Non ci sono desideri o fuochi d’artificio pronti. Una vecchia tra le lacrime stringe i nipoti come a sussurrare loro che la sofferenza è già stata tanta e che il passaggio sarà indolore.
V. non guarda le lacrime e non sente il chiasso della festa televisiva. La vede passare dietro la telecamera. Non fanno in tempo a chiamarlo. A dirgli: “E’ G.”.
E’ andato, in sella al ricordo della vita che ha buttato. Ha un istante per trovarla, ma non sarà meno di quello che ha avuto per perderla, solo sei mesi fa. Il vento in faccia increspa la consapevolezza che è l’ultima volta per stringerla in quei pochi minuti di notte che restano. E corre. Incurante del traffico, delle luci e dei terrazzi illuminati di chiasso. Vola consapevole di quello che non sa. S’innalza come l’unica onda in una baia col mare fermo da mesi.
Tra il parcheggio e gli occhi di lei ci sono dieci minuti in cui tutto precipita addosso: i ricordi, le parole dell’ultima volta perse nei mesi lontani e quell’unica che ha a disposizione per strattonarla via di lì: «Vieni!».
Lei viene che ancora non è finita, come quella goccia che non è pioggia, ma eccola lì. Sfila come una stella cadente che non fa male quando si spegne negli occhi di chi desidera. Arriva nell’unico posto che è stato solo loro. Quando più in alto del terrazzo del vecchio appartamento c’è solo il tetto di tegole sconnesse. In una notte a metà, V. aiuta G. a salire e le rotola dietro. Scomodi a guardare le luci che rimarranno a consumarsi anche dopo che sarà scomparso chi le ha accese. Che colorano il futuro imminente di V. e G. che si stringono prima di dissolversi. Da vicino si urla all’ultimo minuto di un cielo che stringe, di un’afa che strangola.
V. si tocca il polso.
Lei dice: «Che fai?»
«Ti amo»
«No, con la mano sul polso»
La bacia scivolandole dentro con la lingua. Le urla intorno s’innalzano dai vicoli, dagli appartamenti, viaggiano per l’ultima corsa sulla tangenziale vicina. E come arrivano se ne vanno. Gesti e frasi fuori tempo massimo, a bordo ring, pesti.
G. si stacca dalle braccia di lui: «E’ già finita?». Sposta i capelli, si gira, osserva le finestre vuote, le case immobili.
«Sì» fa lui, non credendo che avrebbe funzionato.
«Ma come? E noi? Siamo sempre qui?»
«Noi ci godiamo questo minuto in più. L’unico che ho potuto rubare spostando la lancetta dell’orologio indietro»
Lei gli sorride nel silenzio. Gli accarezza il viso. Alza spesso lo sguardo, lo fissa. Per non perderlo. Per perdersi. Pensa che sono una foto in bianco e in nero. Nero della notte, bianco della luce dei lampioni. Pensa che basta non voltarsi, non accettare un orizzonte. Credersi infiniti, insieme. Pensa che sono in ritardo per il cielo e che c’è futuro anche se non sa cosa ci sarà dentro. Ma venga avanti e si prenda tutto, passato e presente. Non importa, sia quel che sia, purchè esista, da qualche parte.
Intanto non ci sono già più.

Nessun commento:

Posta un commento