IV
La sensazione iniziale è chiara e
definitiva come il primo sole della giornata che lo illumina: smarrimento.
Appena apre gli occhi sa che il tempo è passato (quanto?) e il mondo ha continuato per la sua strada. La seconda
percezione è quella di punture di spillo in faccia, nitide come i denti di un
topo che rosicchia i muscoli del viso. Ma sono mosche. A decine gli ronzano
intorno. Ha un braccio addormentato che prova a muovere, lì lontano dove si
trova. Gira gli occhi di lato, vede nero e chiude le palpebre. Sente l’odore
del sangue rappreso intorno, pare ovunque sulla sua pelle. Torna a fissare in
alto, la luce gli provoca bruciore. E’ stordito sotto quel sole senza ora.
Muove il braccio buono e si chiude la mano sugli occhi. Le gambe e i piedi
paiono reagire ai primi impulsi. Cerca di recuperare la cognizione del tempo
trascorso. Intuisce da lontano l’urgenza di qualcosa che doveva compiere e che
non ha fatto, per qualche motivo.
Si mette sui gomiti, il sole è accecante,
il caldo asfissiante, da ammazzare i cani. Le narici rubano un po’ d’aria
mentre si gratta la gola per capire se ha ancora l’uso della parola. I suoi
occhi si perdono nel buio, di nuovo. E allora comprende che c’è qualcosa che
non torna.
Un grande occhio di luce lo investe fino
alle caviglie, mentre tutto intorno si confonde di nero. E’ sotto un riflettore
accecante, senza vedere oltre. Intuisce che è al chiuso anche se non ne è
sicuro. Si passa una mano sotto al naso, a pulirsi il sangue rappreso, a
scacciare le mosche. Sente l’odore delle dita insieme alle croste che si sfaldano.
Rabbrividisce perché prima ancora che l’onda di pensieri lo raggiunga e lo
investa, lui è già precipitato dal surf con la faccia impigliata nell’acqua
gelata. L’odore di morte è ovunque, dolciastro ed invadente. Ora che è lucido
lo distingue da tutti gli altri olezzi, compreso quello del sangue cicatrizzato
che ha proprio dentro il naso. Le pupille si muovono dalla luce al buio, e
viceversa, senza abituarsi mai. Nonostante quello che pensa, s’impone di essere
razionale: gli sfugge un passaggio, senza dubbio.
Guarda avanti senza muovere gli occhi in
alto, schermandosi con la mano. Deve individuare per bene quello che già sa che
vedrà, ma deve imporsi di essere incontrovertibile. Dopo qualche secondo inizia
a distinguere la parete in fondo e i sacchi, accatastati come onde nere che
fanno sberleffi, spruzzi disarticolati. Decine di sacchi che lui stesso ha
riempito e gettato lì, nel vagone cisterna abbandonato vicino al bar del Brighenzio.
Al centro di quel mare di morte scura c’è lui, vestito come qualche ora prima (quanto tempo è passato?), mentre
inseguiva una bambina di dodici anni tra le rotaie.
Gli fanno male le anche e capisce che chi
l’ha gettato laggiù si è solo dimenticato di imbustarlo, ma che anche il suo
carnefice non ha avuto pietà nel tirarlo di sotto dall’apertura che scorge in
alto, aperta sulla luce. Il vomito gli risale la trachea e lo colpisce come la
mano di una puttana che gli strizza le palle. Ce n’era una in quei sacchi che
mentre scopava gli carezzava i genitali strizzandoglieli, facendolo godere di
quel solletico intimo che nemmeno lui riusciva a procurarsi da solo. Rovescia l’acido
dello stomaco su uno dei sacchi neri di fianco. Potrebbero essere le cosce di
una delle sue amanti quelle su cui ha vomitato. Inizia a tastare, arrivando a
sentirne i piedi. Un alluce ha rotto il sacco e fuoriesce il dito con il
cartellino attaccato: ‘XCIX’, la
novantanovesima preda. L’ultima che non era riuscita a celare prima dell’arrivo
della bambina (come si chiamava?).
Ora finalmente era affogata in quel mare di morte. Insieme a lui.
V
La luce inizia ad affievolirsi. A nulla
sono servite le grida e le mani spellate. Le pareti della cisterna sono troppo
scivolose per essere affrontate con le unghie e i denti. Quando persino l’odore
non gli dà più fastidio, decide di riposarsi. Si accascia a fissare il nero,
nel punto più distante dal fascio ora incerto di luce al centro. Ha provato ad
accatastare i cadaveri formando una piramide sghemba su cui salire fino
all’apertura. Ha vomitato e sputato tutto quello che aveva, compresi i vermi e
le mosche. La sete lo ha colto ore fa screpolandogli le labbra, ardendogli la
gola. Si è reso conto che non c’è scampo per un uomo di poco conto come lui.
Non ce ne sarebbe per nessuno in quelle condizioni. Non lo preoccupa più il
fatto che possano scoprirlo lì dentro con novantanove cadaveri imbustati. Ha
smesso di chiedersi chi possa averlo gettato lì. Ha abbandonato il pensiero
della bambina che gioca a nascondersi nel cuore della notte, ultima immagine di
un mondo che non gli appartiene più, tanto è lontano. Sembrano passate
settimane, ma sa che neanche un giorno è ancora trascorso. E nessuno lo
troverà. Come non han trovato decine di cadaveri in putrefazione da mesi. I
pensieri si sfaldano nella dissolvenza della notte che incombe. Aspetta la fine
grondante dei colori del tramonto sapendo che non vedrà nulla di diverso dalle
decine di mosche e di vermi che ormai gli offuscano la vista e gli assordano le
orecchie. Pensa ancora che il bene non esista mentre il male sì. E’ uno dei
mantra che ha proclamato negli anni, ora lo vive sulla sua pelle, dopo averlo professato
a decine di donne che sono insieme a lui. Fine beffarda la sua: seppellito vivo
con le sue creature. Tutti esseri che gli hanno consegnato una minima parte di
loro, seppure fisica, ma che si sono affidate per qualche ora. Non è così
lucido per commemorarle, ma le ringrazia, mentre rauco ansima respirando mosche
e vomito, ormai disidratato.
Le risate che sente sono così remote che
pensa lucidamente che il suo cervello si stia prendendo beffe di lui. ‘E’ così che va alla fine: ti prendi per il
culo da solo quando non hai più niente da chiedere’, pensa. Un’ombra si
allunga sui sacchi, dall’alto, e la risata si fa più distinta, reale. Alza gli
occhi e tra nugoli di mosche pensa che non c’è niente da ridere se qualcuno mai
stesse ridendo. Ma poi vede che c’è davvero qualcuno in cima al serbatoio e che
non si tratta di un gioco di luci beffardo. Allora si muove carponi, ma veloce,
affondando le mani e le ginocchia tra i sacchi. Incespicando goffo arriva sotto
l’occhio di bue adorante. Sente la risata farsi alta, cadergli sopra con l’eco
a rimbombargli nella pancia. Gli sembra la stessa della ragazzina, ma sa che è
impossibile che lei sia lassù, che lei l’abbia gettato là dentro. La mano che
spunta dall’alto lo rassicura che non sono deliri quelli che sta vivendo,
almeno non gli ultimi. Allora prova a singhiozzare qualcosa, come nei film dei
sopravvissuti che alla fine vengono tratti in salvo. Disturbati, forse, malati
anche, ma salvi dalla prigionia. Non si accorge subito che dalla gola non esce
nulla oltre alle mosche, non comprende che non sono lì per salvarlo, ma solo
per salutarlo. Nemmeno quando la mano dall’alto lo saluta pensa che possa
essere finita, ma che ha avuto anche fortuna che lo trovassero in così poco
tempo. Quando vede precipitare un foglio bianco sente di nuovo la risata
stordente che consapevole rimbalza nella pancia della cisterna. Ma si fa sotto,
con le braccia tese per raccogliere quel paracadute bianco che sta precipitando
verso di lui e che conterrà le istruzioni per imbragarlo e trarlo fuori. Le
dita lo agguantano prima che si perda in quel mare nero di morte e lo infilano
sotto gli occhi avidi. La luce tiepida del tramonto lo illumina quel tanto che
basta per lasciargli leggere quello che poi non è molto, ma è tanto comunque.
Si abbandona in ginocchio con le braccia lungo i fianchi lasciando cadere il
foglio davanti al viso di una delle donne immobili ai suoi piedi. Giusto il
tempo di far leggere anche a lei la ‘C’ scritta in stampatello, prima che la
botola venga chiusa, la luce si spenga e lui vinca la scommessa con se stesso.