I
E’ un uomo di poco conto. Nell’istante in
cui ha capito che non avrebbe mai potuto cambiare il mondo, ha deciso che il
mondo non avrebbe cambiato lui, evitando ogni futuro, ogni orizzonte. Allora si
insinua nel buio delle sere e aspetta la fine grondante di colori di
ogni tramonto.
«Che cosa fai per vivere?» chiede lei.
Pensa ‘Perché
lo vuoi sapere? Che cosa t’importa?’. Ha il suo seno davanti, le mani sul
culo. Si tiene come sul ponte di una barca lanciata a trenta nodi. I capelli
scompigliati e il corpo che si flette. Le concede la risposta che dà a tutte:
«Difficile da spiegare». Lo guarda curiosa mentre si concentra sul movimento ed
ansima, cercando di sentirlo come un pensiero cui vai dietro per un attimo.
Impossibile da perdere, impossibile da fermare.
Lui la tiene stretta per non smarrirla.
Per non confondersi.
«Difficile
dici?»
«Difficile, sì»
Non la guarda in viso. Non riesce a guardarle
gli occhi. Non lo fa mai con nessuna. Se non guardi gli occhi non c’è modo di
ricordare. Di fartela entrare dentro. Fissa la bocca, le mani, i seni, il culo.
Sono cose che non rimangono. Sorride, ma non le restituisce gli occhi. La tiene
per i fianchi. Segue la sua danza. Ha la saliva di fuori, la faccia disfatta.
Lei usa il suo pene come un perno. Si tiene dentro solo la punta. Approfitta
del vigore per strofinarselo addosso, senza farsi penetrare. Quasi a piegarlo,
senza riuscirvi, il sangue affluisce regolare, il colore della pelle si
scurisce.
Lui la stacca da sé, stufo di quella
danza. La gira su un fianco e le agguanta una gamba sollevandola. Le mani
scivolano sull’autoreggente fino all’incavo posteriore del ginocchio. Il
collant ha uno strappo tra l’alluce e il secondo dito smaltato di rosso.
L’aveva visto prima quando le aveva tirato via gli stivali. Gli consegna
un’immagine di lei, sfatta, che lo eccita ancora di più. La prende da dietro,
lei geme con un dito di lui in bocca. Ha l’anta dell’armadio davanti, la sua
pelle bianca tra le mani. Prende a martellarle il basso ventre mentre lei
l’asseconda.
Le sussurra: «Cazzo vuoi?», stringendo le
labbra, non smettendo di tamponarla.
Lei gira gli occhi, vorrebbe rispondere,
ma ha il suo indice tra i denti. Si limita a mugugnare. Lui sa che lo sente
fino in pancia. Sa che le piace e che può goderne allo spasmo. Lei geme come un
corridore sul traguardo, lo legge nella mano che gli appoggia su un fianco a
spingerlo dietro, costringendolo a muoversi sempre più da lontano. Come il
carrello otturatore di una Beretta che ricarica arrivando a fine corsa, pronta
per lo sparo successivo.
Senza far rumore, stringendole un seno, è
bello pensare che le farà una crepa nella vita.
II
Si alza. Si sporge a guardare la sera a
Porto Ceresio. Lei dorme, gli dà la schiena. Mostra i capelli, i fianchi magri,
scavati, le fossette di venere. Fuori c’è odore di ristorante e di bruciato. Il
lago è qua, ma non si sente. Lui anche è qua. Ha i capelli arruffati, i peli
sul petto gli danno caldo. Ha il sudore misto al suo, odora diverso il suo
corpo. Si passa una mano, si tocca il ventre, si stira il cazzo. E’ ora di andare
a lavoro.
Fa il giro del letto e raccoglie le
mutande. Le indossa insieme alla camicia, la tiene aperta. Ritorna alla
finestra a prendere i pantaloni sulla sedia sotto. Lascia solo i piedi nudi
sulla moquette. Torna da lei. Le stampa un bacio sulla fronte. Lei mugugna e lui
le appoggia un altro bacio sulle labbra. Ha gli occhi aperti ora, il viso
gualcito. Lo vede in piedi che le accarezza la testa. Lui sorride e le appoggia
l’altra mano dietro al collo. Col pollice le accarezza dolcemente la mascella.
Lei struscia i piedi sotto il lenzuolo. Si rilassa e gli mostra un bacio con le
labbra, con un occhio semichiuso. Il rumore del collo che si spezza è quello di
una corda tesa, di una bacchetta cinese su un tamburo. E’ competente in quello
che fa, rapido ed esperto. Si alza e appoggia la testa di lei su un fianco. Ora
sembra davvero che dorma di un sonno naturale e appagante.
Torna alla finestra a prendere le
sigarette sul davanzale. In cucina accende il fuoco sotto al caffè, aspetta che
esca e lo versa in una tazzina. Lo beve con tutta la calma della notte sul lago.
Quella tranquillità di chi prolunga ancora la serenità della propria casa al
mattino, prima di scendere nel mondo. E’ notte fonda, però, e c’è da lavorare
ora.
Nello sgabuzzino trova il sacco di juta e
i guanti da indossare. Lo sistema di fianco a letto. Smuove il lenzuolo nel
quale si era avvolta ‘Come si chiamava?’,
le tira il braccio e la caviglia. La divarica come un pupazzo e la trascina sul
telo. In bagno riempie la vasca di acqua fredda. Si tira dietro il corpo fino alla
vasca prendendo i lembi del telo di juta. Un braccio della donna si incastra
contro la zampa del letto. E’ costretto ad incrociarle entrambi gli arti sul
sesso, sperando che non ricadano. Sul bordo della vasca, la solleva per la
prima volta. Pensa ad uno spaventapasseri di quarantacinquequarantaseichili. Nell’acqua piccole bollicine
danzano dai pori della pelle fino in superficie. Con la spugna la deterge da
capo a piedi, prima davanti, poi dietro. Quando ha finito la gira come un pollo
allo spiedo, con la testa all’ingiù. Le lava i capelli, tira il tappo della
vasca e col telefono la sciacqua dal sapone. Con sforzo la risistema sul sacco
nero, prende l’asciugamano grande e inizia a tergerla. Raccoglie le forbici dal
cassetto e le taglia le unghie. Nel mobiletto di fianco allo specchio c’è il
borotalco. Lo sventaglia su tutto il corpo, stando attento a non buttarlo fuori
dal telo. Nello scrittoio in salotto trova il cartellino con l’elastico e il
pennarello. ‘XCIX’ è quello che
spunta attaccato all’alluce di lei che viene avvolta nel sudario di juta. Sono
le tre del mattino. Su una piccola Moleskine nera presa dal cassetto dello
scrittoio annota il numero romano ed il nome corrispondente. Ne manca soltanto
una e avrà vinto la scommessa con se stesso: cento vittime. Si sporge alla
finestra e si accende una nuova sigaretta. Pensa distintamente che il bene non
esista, il male sì.
(fine parte prima - segue)
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