martedì 30 agosto 2011

C (parte seconda)



III
Ha sempre pensato che a Porto Ceresio o diventi un ciclista professionista o un killer seriale. L’ha provata la bicicletta, ne ha una in giardino che non usa da domenica scorsa. Forse nel week end lo chiameranno per tornare a Lugano, andata - ritorno lungolago. Alla fine ha compreso che non c’è molto di più da fare ed ha optato anche per il secondo hobby. Di donne qualunque, da stropicciare e sistemare in una vasca a fine serata, ce ne sono a decine. Se non è a Porto Ceresio, basta arrivare a Varese, Induno, Brusimpiano, senza parlare di travalicare il confine. Ci sono più ragazze che chilometri da percorrere in sella. Per un uomo di poco conto è quasi troppo.
La stazione ferroviaria gli appare dietro la curva. Si accosta al bar e controlla che tutte le luci siano spente. Il Brighenzio in settimana chiude poco dopo la mezza. Non c’è pericolo sia ancora in giro. Parcheggia l’auto a ridosso della staccionata e ai vecchi serbatoi gpl. Nessuno li usa più, troppo pericolosi. C’è il rischio di saltare in aria per un’inezia.

Tra i vagoni dismessi dalle ferrovie c’è quello cisterna, fermo da dieci anni o forse più. Assomiglia ad un sommergibile con le ruote, scolorito ed arrugginito.
L’imbocco in alto è grande da farci passare una persona e la botola è messa male come tutto il resto, ma perfettamente oliata e funzionante. Sale la scaletta in acciaio sul lato ed apre il portellone. Il fetore che lo agguanta gli fa chiudere gli occhi e strizzare il naso. Rischia di perdere l’equilibrio. Si è dimenticato di mettersi la pasta di canfora.
In macchina se la spalma abbondante sotto le narici ed apre il portellone del bagagliaio. Raccoglie l’ingombrante sacco e lo trascina con una coperta fino alla scala. Intorno, il silenzio più assoluto gli fa girare gli occhi guardingo e tirare su i calzoni. Si concentra e si carica il fagotto nero su una spalla. Con l’altra mano agguanta la scala e si issa sul sommergibile.
In alto è sudato da far schifo, ma non sente più l’odore di morte provenire dal serbatoio.
«Che fai?»
Lui è in piedi sulla scala, oltre il vagone cisterna vede le luci delle barche, respira il sapore della crema. La fitta che sente all’altezza dell’osso cervicale lo stringe in una morsa che non sa gestire. Il sudore non è più quello caldo dello sforzo. Non sa se muoversi per considerare quel sibilo interrogativo.
«Che fai?», come se la voce stessa avesse capito di non avere credito nella notte. Almeno  non in questo momento.
Lui abbassa il viso verso il suono che proviene da lontano, pare dalla Svizzera, preceduto dallo choc che gli ha stordito il cervello. La mano perde presa sul sacco. Il corpo ingabbiato fa un altro schiocco quando lui lo acchiappa all’ultimo, prima che cada di sotto.
La ragazzina è immobile e guarda in alto questo comandante che scende dal suo sommergibile salito a quota periscopica con un sacco sulla spalla come Babbo Natale. Le mani dietro la schiena, un vestito rosso estivo e gli occhi grandi, di quelli che non perdono nulla.
«Che fai lassù?» ripete sorridendo.
Lui volge lo sguardo da destra a sinistra, fissa la strada oltre la staccionata, muove un passo sul piolo più basso: non può stare esposto così a lungo. Scende, dandole le spalle. Quando è al suolo appoggia il sacco.
«Cosa c’è lì dentro?» fa lei, seguendolo con lo sguardo.
Lui ragiona sugli undici, forse dodici anni, della bambina. Pensa che saranno le quattro del mattino. Considera che sono nel luogo più isolato della zona, a ridosso della strada certo, ma su binari morti da oltre venti anni. E tutto ciò lei lo fa sembrare come una qualsiasi conversazione da mezzogiorno in paese, quella con un chiunque che ti conosce da un po’ e vuole sapere di te, come vivi, che hobby hai.
«Ma tu cosa ci fai qui?» le domanda incerto che sia vera la bambina che lo guarda con gli occhi neri.
«Passeggio. Fa caldo per dormire» gli risponde e guarda il sacco storto in terra. Lo indica col braccio alzato: «Lì cosa tieni? E cosa facevi in alto?»
Lui è a disagio. Si terge la fronte con l’avambraccio che puzza di juta. La bambina sembra a proprio agio e curiosa di quello che c’è nel sacco di Babbo Natale.
«Sei sola qui? Dov’è tua madre?» ribatte lui.
Lei lo fissa sorniona, allarga le labbra furbetta. «Io vengo da sola qua. Abito lì », indica con il mento la casa cantoniera in fondo ai binari «Gioco coi treni. Mamma dorme».
E’ la figlia di Sergio e Marianna. Lui non c’è quasi mai, giocatore d’azzardo accanito, lei è spesso sola ed è nell’elenco delle sue possibili prede future. Ora ha la figlia davanti, vestita di tutto punto che muove un passo verso il sacco.
«No, aspetta bambina. Come ti chiami?»
«Manuela. Posso vedere quante cose hai dentro per me? Sono per me, vero?» inclina la testa di lato.
‘Ma pensa che sia Babbo Natale, ‘sta qua?’
«Tantissimi regali, ma siamo in anticipo sul Natale. Poi sai, se i bambini vedono prima i regali che porterò, a loro quelli non spetteranno. Vuoi che alla fine non ti porti niente?»
«I regali li porta Babbo Natale, mica tu. Tu mica sei Babbo Natale»
«Come no?» ‘E allora chi cazzo sono?’, pensa.
«Babbo Natale sta al freddo. Non viene al caldo. Ha la barba bianca che lo protegge dal freddo. Le scarpe ortopediche, la pancia rossa». Manuela muove un altro passo verso il sacco. Lui è veloce come un ratto, allunga la mano per prenderla. Lei schiva e fa svolazzare il vestito. Corre lontano, si ferma e lo sfida, come in un gioco.
«Prova a prendermi. Ahahah!», si nasconde dietro un vagone.
Lui è fuori di sé, un cadavere ad un metro in un sacco e un serbatoio aperto sulla testa pieno di altri corpi in decomposizione. Non può accettare la sfida di una bambina di dodici anni che sghignazza alle quattro del mattino con i genitori che dormono a meno di duecento metri.
«Sssst, Manuela, cazzo», sibila accucciandosi a cercarle le gambe sotto i vagoni.
La bambina corre sfrenata tra i singhiozzi delle risa e le carrozze abbandonate. Fugge come da un solletico, sbuffa polvere dal terreno. Lui è sgretolato dalla paura che la sentano. Che qualcuno apra la finestra della casa cantoniera, magari Marianna stessa, e che li trovi lì a giocare. Anche se giocare non è proprio quello che si penserebbe, data l’ora, la circostanza e l’evidente differenza di età dei giocatori.
«Manuela, dai, vieni qui, ti faccio vedere i regali nel sacco» la supplica mentre la insegue nella notte. C’è la luna bassa e i lampioni gialli a rischiarare i ciottoli dei binari. Non vede nulla, ma sente. La ascolta ridere, la sente prendersi gioco di lui.
«Manuela! Dove sei finita? Piccola…» la chiama con la testa dentro un vagone buio già sapendo che qualsiasi bambina avrebbe paura lì dentro. C’è puzza pure per un barbone che ha abbandonato l’acqua nella sua vita precedente. Impossibile crederla lì dentro.
Manuela esce dal basso infatti: «Bù!!!». Gli agguanta una caviglia mentre è sotto la pancia del treno, china sulle ginocchia. Al tocco, lui salta come una fetta nel tostapane, preoccupato dall’urlo cacciato dalla piccola che potrebbero aver sentito. Si muove rapido, flette le ginocchia, prova ad allungare un braccio. Il colpo al naso gli arriva in pieno, inatteso come un infarto a vent’anni, mentre gira il viso di tre quarti. Il setto si sposta e si frattura pressando il frontale mascellare che si squarcia con l’urto contro il maniglione della porta scorrevole del vagone. Il calore del sangue è l’ultima cosa che prova ad afferrare con la mente prima di rotolare a pancia all’aria con le braccia piegate, gorgogliando. L’ultimo flash della notte è la gonna della bambina che gli sfiora l’avambraccio.
(fine parte seconda - segue)

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