III
Ha sempre pensato che a Porto Ceresio o
diventi un ciclista professionista o un killer seriale. L’ha provata la
bicicletta, ne ha una in giardino che non usa da domenica scorsa. Forse nel
week end lo chiameranno per tornare a Lugano, andata - ritorno lungolago.
Alla fine ha compreso che non c’è molto di più da fare ed ha optato anche per
il secondo hobby. Di donne qualunque, da stropicciare e sistemare in una vasca
a fine serata, ce ne sono a decine. Se non è a Porto Ceresio, basta arrivare a
Varese, Induno, Brusimpiano, senza parlare di travalicare il confine. Ci sono
più ragazze che chilometri da percorrere in sella. Per un uomo di poco conto è
quasi troppo.
La stazione ferroviaria gli appare dietro
la curva. Si accosta al bar e controlla che tutte le luci siano spente. Il Brighenzio
in settimana chiude poco dopo la mezza. Non c’è pericolo sia ancora in giro.
Parcheggia l’auto a ridosso della staccionata e ai vecchi serbatoi gpl. Nessuno
li usa più, troppo pericolosi. C’è il rischio di saltare in aria per un’inezia.
Tra i vagoni dismessi dalle ferrovie c’è
quello cisterna, fermo da dieci anni o forse più. Assomiglia ad un sommergibile
con le ruote, scolorito ed arrugginito.
L’imbocco in alto è grande da farci
passare una persona e la botola è messa male come tutto il resto, ma
perfettamente oliata e funzionante. Sale la scaletta in acciaio sul lato ed apre
il portellone. Il fetore che lo agguanta gli fa chiudere gli occhi e strizzare
il naso. Rischia di perdere l’equilibrio. Si è dimenticato di mettersi la pasta
di canfora.
In macchina se la spalma abbondante sotto
le narici ed apre il portellone del bagagliaio. Raccoglie l’ingombrante sacco e
lo trascina con una coperta fino alla scala. Intorno, il silenzio più assoluto gli
fa girare gli occhi guardingo e tirare su i calzoni. Si concentra e si carica
il fagotto nero su una spalla. Con l’altra mano agguanta la scala e si issa sul
sommergibile.
In alto è sudato da far schifo, ma non
sente più l’odore di morte provenire dal serbatoio.
«Che fai?»
Lui è in piedi sulla scala, oltre il vagone
cisterna vede le luci delle barche, respira il sapore della crema. La fitta che
sente all’altezza dell’osso cervicale lo stringe in una morsa che non sa
gestire. Il sudore non è più quello caldo dello sforzo. Non sa se muoversi per
considerare quel sibilo interrogativo.
«Che fai?», come se la voce stessa avesse
capito di non avere credito nella notte. Almeno
non in questo momento.
Lui abbassa il viso verso il suono che
proviene da lontano, pare dalla Svizzera, preceduto dallo choc che gli ha
stordito il cervello. La mano perde presa sul sacco. Il corpo ingabbiato fa un
altro schiocco quando lui lo acchiappa all’ultimo, prima che cada di sotto.
La ragazzina è immobile e guarda in alto
questo comandante che scende dal suo sommergibile salito a quota periscopica con
un sacco sulla spalla come Babbo Natale. Le mani dietro la schiena, un vestito
rosso estivo e gli occhi grandi, di quelli che non perdono nulla.
«Che fai lassù?» ripete sorridendo.
Lui volge lo sguardo da destra a
sinistra, fissa la strada oltre la staccionata, muove un passo sul piolo più
basso: non può stare esposto così a lungo. Scende, dandole le spalle. Quando è
al suolo appoggia il sacco.
«Cosa c’è lì dentro?» fa lei, seguendolo
con lo sguardo.
Lui ragiona sugli undici, forse dodici
anni, della bambina. Pensa che saranno le quattro del mattino. Considera che
sono nel luogo più isolato della zona, a ridosso della strada certo, ma su
binari morti da oltre venti anni. E tutto ciò lei lo fa sembrare come una
qualsiasi conversazione da mezzogiorno in paese, quella con un chiunque che ti
conosce da un po’ e vuole sapere di te, come vivi, che hobby hai.
«Ma tu cosa ci fai qui?» le domanda
incerto che sia vera la bambina che lo guarda con gli occhi neri.
«Passeggio. Fa caldo per dormire» gli
risponde e guarda il sacco storto in terra. Lo indica col braccio alzato: «Lì
cosa tieni? E cosa facevi in alto?»
Lui è a disagio. Si terge la fronte con
l’avambraccio che puzza di juta. La bambina sembra a proprio agio e curiosa di
quello che c’è nel sacco di Babbo Natale.
«Sei sola qui? Dov’è tua madre?» ribatte
lui.
Lei lo fissa sorniona, allarga le labbra
furbetta. «Io vengo da sola qua. Abito lì », indica con il mento la casa
cantoniera in fondo ai binari «Gioco coi treni. Mamma dorme».
E’ la figlia di Sergio e Marianna. Lui
non c’è quasi mai, giocatore d’azzardo accanito, lei è spesso sola ed è
nell’elenco delle sue possibili prede future. Ora ha la figlia davanti, vestita
di tutto punto che muove un passo verso il sacco.
«No, aspetta bambina. Come ti chiami?»
«Manuela. Posso vedere quante cose hai
dentro per me? Sono per me, vero?» inclina la testa di lato.
‘Ma
pensa che sia Babbo Natale, ‘sta qua?’
«Tantissimi regali, ma siamo in anticipo
sul Natale. Poi sai, se i bambini vedono prima i regali che porterò, a loro
quelli non spetteranno. Vuoi che alla fine non ti porti niente?»
«I regali li porta Babbo Natale, mica tu.
Tu mica sei Babbo Natale»
«Come no?» ‘E allora chi cazzo sono?’, pensa.
«Babbo Natale sta al freddo. Non viene al
caldo. Ha la barba bianca che lo protegge dal freddo. Le scarpe ortopediche, la
pancia rossa». Manuela muove un altro passo verso il sacco. Lui è veloce come
un ratto, allunga la mano per prenderla. Lei schiva e fa svolazzare il vestito.
Corre lontano, si ferma e lo sfida, come in un gioco.
«Prova a prendermi. Ahahah!», si nasconde
dietro un vagone.
Lui è fuori di sé, un cadavere ad un
metro in un sacco e un serbatoio aperto sulla testa pieno di altri corpi in
decomposizione. Non può accettare la sfida di una bambina di dodici anni che
sghignazza alle quattro del mattino con i genitori che dormono a meno di
duecento metri.
«Sssst, Manuela, cazzo», sibila accucciandosi a cercarle le gambe sotto i vagoni.
La bambina corre sfrenata tra i
singhiozzi delle risa e le carrozze abbandonate. Fugge come da un solletico, sbuffa
polvere dal terreno. Lui è sgretolato dalla paura che la sentano. Che qualcuno
apra la finestra della casa cantoniera, magari Marianna stessa, e che li trovi
lì a giocare. Anche se giocare non è proprio quello che si penserebbe, data l’ora,
la circostanza e l’evidente differenza di età dei giocatori.
«Manuela, dai, vieni qui, ti faccio
vedere i regali nel sacco» la supplica mentre la insegue nella notte. C’è la
luna bassa e i lampioni gialli a rischiarare i ciottoli dei binari. Non vede
nulla, ma sente. La ascolta ridere, la sente prendersi gioco di lui.
«Manuela! Dove sei finita? Piccola…» la
chiama con la testa dentro un vagone buio già sapendo che qualsiasi bambina
avrebbe paura lì dentro. C’è puzza pure per un barbone che ha abbandonato
l’acqua nella sua vita precedente. Impossibile crederla lì dentro.
Manuela esce dal basso infatti: «Bù!!!».
Gli agguanta una caviglia mentre è sotto la pancia del treno, china sulle
ginocchia. Al tocco, lui salta come una fetta nel tostapane, preoccupato
dall’urlo cacciato dalla piccola che potrebbero aver sentito. Si muove rapido, flette
le ginocchia, prova ad allungare un braccio. Il colpo al naso gli arriva in
pieno, inatteso come un infarto a vent’anni, mentre gira il viso di tre quarti.
Il setto si sposta e si frattura pressando il frontale mascellare che si
squarcia con l’urto contro il maniglione della porta scorrevole del vagone. Il
calore del sangue è l’ultima cosa che prova ad afferrare con la mente prima di rotolare
a pancia all’aria con le braccia piegate, gorgogliando. L’ultimo flash della
notte è la gonna della bambina che gli sfiora l’avambraccio.
(fine parte seconda - segue)
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