mercoledì 31 agosto 2011

C (parte terza)

IV
La sensazione iniziale è chiara e definitiva come il primo sole della giornata che lo illumina: smarrimento. Appena apre gli occhi sa che il tempo è passato (quanto?) e il mondo ha continuato per la sua strada. La seconda percezione è quella di punture di spillo in faccia, nitide come i denti di un topo che rosicchia i muscoli del viso. Ma sono mosche. A decine gli ronzano intorno. Ha un braccio addormentato che prova a muovere, lì lontano dove si trova. Gira gli occhi di lato, vede nero e chiude le palpebre. Sente l’odore del sangue rappreso intorno, pare ovunque sulla sua pelle. Torna a fissare in alto, la luce gli provoca bruciore. E’ stordito sotto quel sole senza ora. Muove il braccio buono e si chiude la mano sugli occhi. Le gambe e i piedi paiono reagire ai primi impulsi. Cerca di recuperare la cognizione del tempo trascorso. Intuisce da lontano l’urgenza di qualcosa che doveva compiere e che non ha fatto, per qualche motivo.
Si mette sui gomiti, il sole è accecante, il caldo asfissiante, da ammazzare i cani. Le narici rubano un po’ d’aria mentre si gratta la gola per capire se ha ancora l’uso della parola. I suoi occhi si perdono nel buio, di nuovo. E allora comprende che c’è qualcosa che non torna.
Un grande occhio di luce lo investe fino alle caviglie, mentre tutto intorno si confonde di nero. E’ sotto un riflettore accecante, senza vedere oltre. Intuisce che è al chiuso anche se non ne è sicuro. Si passa una mano sotto al naso, a pulirsi il sangue rappreso, a scacciare le mosche. Sente l’odore delle dita insieme alle croste che si sfaldano. Rabbrividisce perché prima ancora che l’onda di pensieri lo raggiunga e lo investa, lui è già precipitato dal surf con la faccia impigliata nell’acqua gelata. L’odore di morte è ovunque, dolciastro ed invadente. Ora che è lucido lo distingue da tutti gli altri olezzi, compreso quello del sangue cicatrizzato che ha proprio dentro il naso. Le pupille si muovono dalla luce al buio, e viceversa, senza abituarsi mai. Nonostante quello che pensa, s’impone di essere razionale: gli sfugge un passaggio, senza dubbio.
Guarda avanti senza muovere gli occhi in alto, schermandosi con la mano. Deve individuare per bene quello che già sa che vedrà, ma deve imporsi di essere incontrovertibile. Dopo qualche secondo inizia a distinguere la parete in fondo e i sacchi, accatastati come onde nere che fanno sberleffi, spruzzi disarticolati. Decine di sacchi che lui stesso ha riempito e gettato lì, nel vagone cisterna abbandonato vicino al bar del Brighenzio. Al centro di quel mare di morte scura c’è lui, vestito come qualche ora prima (quanto tempo è passato?), mentre inseguiva una bambina di dodici anni tra le rotaie.
Gli fanno male le anche e capisce che chi l’ha gettato laggiù si è solo dimenticato di imbustarlo, ma che anche il suo carnefice non ha avuto pietà nel tirarlo di sotto dall’apertura che scorge in alto, aperta sulla luce. Il vomito gli risale la trachea e lo colpisce come la mano di una puttana che gli strizza le palle. Ce n’era una in quei sacchi che mentre scopava gli carezzava i genitali strizzandoglieli, facendolo godere di quel solletico intimo che nemmeno lui riusciva a procurarsi da solo. Rovescia l’acido dello stomaco su uno dei sacchi neri di fianco. Potrebbero essere le cosce di una delle sue amanti quelle su cui ha vomitato. Inizia a tastare, arrivando a sentirne i piedi. Un alluce ha rotto il sacco e fuoriesce il dito con il cartellino attaccato: ‘XCIX’, la novantanovesima preda. L’ultima che non era riuscita a celare prima dell’arrivo della bambina (come si chiamava?). Ora finalmente era affogata in quel mare di morte. Insieme a lui.

V
La luce inizia ad affievolirsi. A nulla sono servite le grida e le mani spellate. Le pareti della cisterna sono troppo scivolose per essere affrontate con le unghie e i denti. Quando persino l’odore non gli dà più fastidio, decide di riposarsi. Si accascia a fissare il nero, nel punto più distante dal fascio ora incerto di luce al centro. Ha provato ad accatastare i cadaveri formando una piramide sghemba su cui salire fino all’apertura. Ha vomitato e sputato tutto quello che aveva, compresi i vermi e le mosche. La sete lo ha colto ore fa screpolandogli le labbra, ardendogli la gola. Si è reso conto che non c’è scampo per un uomo di poco conto come lui. Non ce ne sarebbe per nessuno in quelle condizioni. Non lo preoccupa più il fatto che possano scoprirlo lì dentro con novantanove cadaveri imbustati. Ha smesso di chiedersi chi possa averlo gettato lì. Ha abbandonato il pensiero della bambina che gioca a nascondersi nel cuore della notte, ultima immagine di un mondo che non gli appartiene più, tanto è lontano. Sembrano passate settimane, ma sa che neanche un giorno è ancora trascorso. E nessuno lo troverà. Come non han trovato decine di cadaveri in putrefazione da mesi. I pensieri si sfaldano nella dissolvenza della notte che incombe. Aspetta la fine grondante dei colori del tramonto sapendo che non vedrà nulla di diverso dalle decine di mosche e di vermi che ormai gli offuscano la vista e gli assordano le orecchie. Pensa ancora che il bene non esista mentre il male sì. E’ uno dei mantra che ha proclamato negli anni, ora lo vive sulla sua pelle, dopo averlo professato a decine di donne che sono insieme a lui. Fine beffarda la sua: seppellito vivo con le sue creature. Tutti esseri che gli hanno consegnato una minima parte di loro, seppure fisica, ma che si sono affidate per qualche ora. Non è così lucido per commemorarle, ma le ringrazia, mentre rauco ansima respirando mosche e vomito, ormai disidratato.
Le risate che sente sono così remote che pensa lucidamente che il suo cervello si stia prendendo beffe di lui. ‘E’ così che va alla fine: ti prendi per il culo da solo quando non hai più niente da chiedere’, pensa. Un’ombra si allunga sui sacchi, dall’alto, e la risata si fa più distinta, reale. Alza gli occhi e tra nugoli di mosche pensa che non c’è niente da ridere se qualcuno mai stesse ridendo. Ma poi vede che c’è davvero qualcuno in cima al serbatoio e che non si tratta di un gioco di luci beffardo. Allora si muove carponi, ma veloce, affondando le mani e le ginocchia tra i sacchi. Incespicando goffo arriva sotto l’occhio di bue adorante. Sente la risata farsi alta, cadergli sopra con l’eco a rimbombargli nella pancia. Gli sembra la stessa della ragazzina, ma sa che è impossibile che lei sia lassù, che lei l’abbia gettato là dentro. La mano che spunta dall’alto lo rassicura che non sono deliri quelli che sta vivendo, almeno non gli ultimi. Allora prova a singhiozzare qualcosa, come nei film dei sopravvissuti che alla fine vengono tratti in salvo. Disturbati, forse, malati anche, ma salvi dalla prigionia. Non si accorge subito che dalla gola non esce nulla oltre alle mosche, non comprende che non sono lì per salvarlo, ma solo per salutarlo. Nemmeno quando la mano dall’alto lo saluta pensa che possa essere finita, ma che ha avuto anche fortuna che lo trovassero in così poco tempo. Quando vede precipitare un foglio bianco sente di nuovo la risata stordente che consapevole rimbalza nella pancia della cisterna. Ma si fa sotto, con le braccia tese per raccogliere quel paracadute bianco che sta precipitando verso di lui e che conterrà le istruzioni per imbragarlo e trarlo fuori. Le dita lo agguantano prima che si perda in quel mare nero di morte e lo infilano sotto gli occhi avidi. La luce tiepida del tramonto lo illumina quel tanto che basta per lasciargli leggere quello che poi non è molto, ma è tanto comunque. Si abbandona in ginocchio con le braccia lungo i fianchi lasciando cadere il foglio davanti al viso di una delle donne immobili ai suoi piedi. Giusto il tempo di far leggere anche a lei la ‘C’ scritta in stampatello, prima che la botola venga chiusa, la luce si spenga e lui vinca la scommessa con se stesso.
(fine)
(leggi la prima parte)
(leggi la seconda parte)

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