lunedì 13 ottobre 2008

Terminal

Riattacco galleggiando in un silenzio angosciato.
«Dove sei?» aveva chiesto. «Fiumicino» avevo risposto. «A che ora il volo?» aveva continuato. «Tra due or…» «Arrivo! Aspettami!» senza neanche il tempo di farmi finire il tuffo nell’ansia. Ondeggio, in attesa. Un cane nel terminal spazza il pavimento con la coda.
Chicca mi ha trovato poco fa con la voce rotta, dopo tre mesi che non la vedo. Sempre in giro io, sempre ferma lei. Mi siedo e mi perdo in quota al di qua del vetro. Tra aerei che salgono e che scendono, misteriosi nelle loro acrobazie da giganti. Il cane ora guaisce più in là. Ne approfitto per pisciare. Ma non riesco a concentrarmi del tutto.
Raggiungo il Mc e aspetto, seduto con la birra incartonata. Davanti a me passa una bella rossa. Il seno lentigginoso è a rischio di scivolare fuori dall’orlo del fragile vestito rosa.
Aspetto mia sorella senza sapere perché o cosa mi porterà. L’attendo in questa nave senza movimento che è il terminal B di Fiumicino. Tra chi va e chi viene. All’apparenza sapendo anche dove e con orari precisi.

Arriva. Scarpe da ginnastica slacciate, maglietta di fuori. Ma non ero io il fratello zingaro? Mi stringe forte.
Dice: «Auguri» all’orecchio.
Dico: «Ah!»
Dice: «Che c’è, non ti ricordavi del nostro anniversario?»
«Sì, certo», mento sibilando.
Più selvaggia e ferita, con gli occhi che aveva mamma, mi fissa ed io finisco di galleggiare. Ora nuoto verso il bordo della piscina e lei mi porge l’asciugamano. Ha una cicatrice sul collo, ma dietro. Non la vedo da troppo.
«Che ti è success…?» le faccio e lei mi mette un dito sulle labbra.
«Ssst… sto bene, non credere» mi fa. «Sono venuta a farti gli auguri e a festeggiare prima che tu parta. Dove stai andando stavolta?»
«Trondheim» ripeto. Mi sorride inclinando la testa di lato.
«Freddo mi sa» dice con uno sguardo tra la disperazione e l’affetto.
Senza accorgermene mi gratto il collo nello stesso punto del suo dolore già superato. Avrei voluto portarla con me, toglierla da quella vita nella quale si perdeva.
«Già…» rispondo dedicandole un occhiolino.

Festeggiamo insieme il giorno in cui abbiamo ucciso nostro padre, ridendo per lo più. Abbracciati a bordo della nostra piscina di un tempo. Giusto un tramonto, qui, come da piccoli. Piedi nudi contro il sole e crema sulle braccia arrossate. In attesa che lui rientri in casa, 16 anni fa.
Mamma è come se fosse sempre qui, a guardarci, ora come allora. Anche dopo il suicidio e l’ennesima rivelazione di adulterio di mio padre. Ricordarla ogni giorno fa male. Soprattutto con l’immagine dei paramedici che la staccano dal soffitto della stanza illuminata. Un’ombra che si staglia contro la luce del soggiorno. E la finta disperazione dell’animale che era rimasto a custodirci.
Tre mesi dopo l’incidente lui ritorna a casa parcheggiando nel vialetto, coi fanali contro l’ingresso del box. Scende, con la patta aperta e la camicia di fuori. Lo vedo prima io di Chicca, dal bordo della piscina. Mi chiama per aiutarlo a sistemare la macchina dentro. Ho 15 anni, una sorella più piccola di sei, un padre che dice di amarmi ed una madre morta dentro un cappio mentre eravamo a scuola. Una vita a caro prezzo, già allora.
Una vita in cui so già guidare. Mi alzo coi piedi gocciolanti e lo raggiungo allo sportello. Era già tutto dentro di me, da tempo. Lui fa il giro del cofano, apre la saracinesca. Accendo il motore ed innesto la prima. Il sobbalzo lo incastra nella lamiera piegato ed urlante. La sagoma abbozzata sulla lastra metallica si macchia di rosso.
Quando socchiudo lo sportello per scendere, Chicca è lì a fissare il cofano. Le giro la testa e la riporto coi piedi a mollo. La nostra infanzia finisce con l’arrivo della polizia che archivia nel rapporto la parola “incidente” e ci riconsegna una vita. Festeggiamo quel giorno a modo nostro, ogni anno sempre insieme.
Chicca mi parla di Michele ora, la sua ultima delusione. Più bella di sempre, è cresciuta da quel giorno. L’unica cosa che so mentre ascolto di un altro uomo sbagliato che la picchiava.
Prende coraggio: «Sono incinta. Mamma sarebbe una nonna fantastica». Io le guardo la maglietta larga, eppure tesa sulla pancia. «Lo tengo sai, anche se ci siamo lasciati. Lui non lo voleva. O non era sicuro, forse. Io non ho avuto un attimo di incertezza. L’ho aiutato, dicendogli che non era suo». Sorride mentre con l’indice e il medio si sfiora la cicatrice: a dirmi che anche sola ce l’avrebbe fatta. Come sempre.

Manca mezz’ora al mio imbarco. Sono seduto a guardare gli aerei in quota al di là del vetro, nella notte. Coi piedi a mollo come tanto tempo fa. Dal bordo della piscina osservo un bambino che ride tra le braccia di una donna. I capelli bagnati, gli schizzi intorno e l’odore di casa.
Al check-in, col biglietto in mano, non fanno storie per l’ultimo viaggio della mia vita da nomade.

2 commenti:

  1. Un racconto forte,deciso..ma che ti lascia dentro anche molta tenerezza!
    complimenti,mi ha catturato veramente!
    Giulia.

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  2. ...si smonta per poi ricostruire, perfezionare, arricchire, migliorare...
    un pò come quella storia della lavagna pasticciata: per scriverci chiaramente bisogna cancellare!
    :)

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